Addio al cinema antiorario di Otar Ioseliani

Ci ha lasciato il 17 dicembre un cineasta misterioso e irripetibile, col suo sguardo divertito sul mondo, mai cristallizzato dentro regole che non fossero quelle della fantasia e dell’invenzione.

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La prima volta che in Italia è stato pronunciato il nome di Otar Ioseliani è stato nei primi anni ’70 quando è arrivato in quello che all’epoca si chiamava il Circuito culturale – formato da Cineclub e compagini di vario genere e natura, fioriti sul nostro territorio metropolitano e di provincia, a testimonianza di un interesse culturale alto per il cinema – il suo C’era una volta un merlo canterino. Il film è giunto come una specie di strano oggetto cinematografico, tanto era difficilmente catalogabile. Era la storia di Guia Adgiaze un suonatore di timpano nella piccola orchestra locale, un tipo svagato, cresciuto in età ma sempre sulle nuvole, il cui destino non sarà benevolo. In questo equilibrio tra commedia e dramma, scoprivamo il cinema di un cineasta che dalla lontana Georgia – cesura tra un‘Europa in fieri e un’Asia ancora cinematograficamente non del tutto conosciuta – ci apriva le porte di un cinema davvero nuovo, leggero nella concezione e denso di materie sconosciute, in una surreale distanza tra il mondo reale e quello creato dentro quelle immagini. Un cinema che sapeva riflettere con straordinaria lucidità e originalità sulla diversità e su quella che già Paolo Vecchi, su Cineforum 165/166 (maggio-giugno 1977), definiva L’impossibilità di essere normale nell’URSS, per un autore sempre osteggiato dal regime. In fondo Ioseliani, o Iosseliani secondo una più compita corrispondenza all’originale georgiano, scomparso lo scorso 17 dicembre lasciando un vuoto non colmabile con opere sempre in punta di fioretto, pronto a colpire il potente potere, ma anche straordinariamente ironico, con punte di mite sarcasmo, è stato un autore che ha giocato con il cinema con la sua anima infantile sotto il profilo di vari registri, maturando in quell’alternarsi di vita e di destino, di casualità, incastri temporali e giochi della vita, in un cerchio infinito di situazioni assurde e complesse che i suoi film da sempre contengono. Con il suo sguardo fintamente svagato ha saputo saggiare il profilo segreto di quegli effetti invisibili del tempo, i destini incrociati degli uomini, il caso, il presentarsi della prosecuzione della vita laddove invece dovrebbe incombere un senso di morte.

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Ioseliani ha sempre rifuggito nel suo cinema il dramma esplicito, nascondendolo con la forte ironia di un eterno presente carico di piccoli eventi che sembrano stemperare ogni dramma, dentro un sopito fluire incessante della vita guardata a distanza con sardonica ironia. Il suo è un cinema che sembra aleggiare sopra le nostre teste creando mondi fantastici adiacenti a quello che vediamo.
Già da questo primo film così diverso nel suo diventare improvvisamente drammatico, si percepisce quella diversità di intenti che appartiene alla favolistica georgiana e che da Paradjanov a Koberidze attraversano le poetiche di questi autori nelle diverse declinazioni possibili, ma sempre riconducibili a quella percezione dolceamara della vita, ma non rassegnata, divertita, ma non superficiale, che diventa tocco speciale e ha caratterizzato tutto il cinema di Ioseliani a partire dai primi cortometraggi Acquerello e Fiore introvabile, rispettivamente del 1958 e del 1959. Esordio che è arrivato dopo una laurea in matematica e un diploma in composizione musicale.
Ma in realtà il primo lungometraggio La caduta delle foglie fu del 1966 e si è aggiudicato il premio FIPRESCI al Festival di Cannes, una specie di consacrazione per il regista georgiano. Ma nonostante arrivassero i primi riconoscimenti internazionali per un cinema realmente differente rispetto a quello che all’epoca si vedeva in Europa, Ioseliani non è diventato autore prolifico e i suoi lavori si sono diradati nel tempo. E, frutto di una accumulazione di sensi e suggestioni che trasformavano i suoi film, la sua intera filmografia è apparsa come una specie di lungo racconto ininterrotto pieno di salti temporali e di frammenti che incastrano le vite dei personaggi.

La sua caratteristica antinarrativa, anti lineare e anti temporale, tanto da diventare una specie di ex libris del suo cinema, l’ha dimostrata con Pastorale del 1975 . In un villaggio rurale della Georgia arriva un gruppo di musicisti e questo piccolo evento diventa l’occasione per uno sguardo su questa vita contadina, lontana da ogni idillio, in una specie di fluente narrazione che sembra di continuo interrotta per dare il via ad altre storie in un susseguirsi uguale e diverso. Film che ha il sapore di quei tranci di vita che rientrano nella grande tradizione della vecchia Russia, ma che nasconde, invece, i principi di una teorizzazione del cinema tutta personale e perseguita nel tempo con rigore stilistico e fantasia produttiva.
Ciò appare tanto vero che nel 1984 Ioseliani consegna alla storia del cinema il suo film forse più famoso, sebbene il suo nome sia purtroppo stato sempre relegato all’interno di un ristretto numero di spettatori legati per lo più ai circuiti dei festival. I favoriti della luna è forse il suo titolo dove più compiutamente – ma si parlerà anche di Canto d’inverno che si muove sulle stesse fantasiose sintonie – si è espressa la poetica di Ioseliani. Nel film sono gli oggetti ad essere protagonisti. E quanti oggetti nelle inquadrature dei futuri film del regista georgiano, tanti da farle sembrare sempre piene, sempre un piccolo bazar per gli occhi. Dall’era napoleonica ai nostri giorni il film racconta delle sorti diverse di questi due oggetti un servizio da caffè e un quadro che è il ritratto di una donna, che tra vendite, aste, furti e altri accidentali eventi, passano di mano in mano raccontando storie private e vedendo il mutare del mondo. C’è dentro un’idea del tempo, un’idea dello scorrere di una vita che cambia nella sua immobile istanza di ogni presente. Ioseliani astrae il suo mondo e ne inventa altri che si muovono agili tra gli interstizi temporali delle vite dei suoi fuggevoli personaggi. Cinema del visibile e dell’invisibile che sembra ogni volta risorgere dalle sue stesse ceneri in quel continuare della vita anche dopo i drammi. È forse anche questo uno dei temi dell’apolide Ioseliani e con Un incendio visto da lontano, girato in Senegal nel 1989, presta il suo sguardo al tema della civilizzazione divoratrice di tradizioni e popoli, come accade in questo film ecologista agli abitanti del villaggio costretti ad abbandonare i loro luoghi a causa dell’arrivo di quella civiltà che prevede il disboscamento e la rottura degli equilibri naturali.

Caccia alle farfalle del 1992 e Canto d’inverno del 2015, ultimo film dell’Autore, hanno temi e forme narrative abbastanza simili e se il primo racconta di due sorelle che abitano in un castello in Francia che non intendono vendere alla società giapponese che se ne approprierà solo dopo la loro morte, in fondo l’altro non è che un canto d’addio ad un mondo che scompare in un’accezione molto simile a quella di Un incendio visto da lontano. Canto d’inverno, che riprende stili e forme dell’altro, appare più centrato su un’umanità vagamente bohémienne che attraversa il mondo tra i pericolosi anfratti di un potere intransigente e poco intelligente e la chiave favolistica che ne caratterizza la narrazione, tratto decisivo di questo cinema così arioso e surreale, sembra sdrammatizzare ogni disgrazia.

È proprio il discorso sul potere il tema centrale di Briganti, il film muto che Ioseliani realizzò nel 1996, che ripercorre tre epoche diverse e lontane tra di loro che hanno un unico protagonista Vano, che dal medioevo alla guerra civile georgiana, passando per la Russia comunista, resta sempre saldo al potere invidiato dai suoi sudditi di sempre. In quel racconto tra opposti in uno sguardo surreale-favolistico che Ioseliani sa inventare si muovono i protagonisti di Addio terraferma del 1999, in cui rovescia le prospettive e ancora una volta il suo cinema, nel quale sembra che le lancette del tempo invertano il loro cammino, diventa tema spiazzante per lo spettatore in una visione inversa delle cose del mondo, come l’ineluttabile destino che è il tema di Lunedì mattina del 2002.
Avrebbe chiuso la sua carriera di regista ironico e raffinato, dotato di una straordinaria capacità di invenzione con Canto d’inverno una geniale narrazione sul filo di quel cinema dell’assurdo che va controcorrente, cinema di situazioni dentro il quale le esili trame a volte si perdono in mille ulteriori rivoli per ritrarre persone e personaggi, e qui dal nobile spiantato senza casa, interpretato da un altrettanto stralunato Enrico Ghezzi, all’operaio che ha avuto per eredità dai genitori solo dei fogli che incolla sulla casa di legno costruita per la sua donna, un gioioso Mathieu Amalric, ritroviamo la lunga amicizia dei due personaggi principali che si amano e si odiano durante tutto il film che sembra fatto esattamente con la materia dei sogni.
Abbiamo perso Otar Ioseliani, il suo sguardo divertito sul mondo, il suo cinema antiorario, mai cristallizzato dentro regole che non fossero quelle della fantasia e dell’invenzione, un cineasta misterioso, al di fuori di ogni scuola e perfino da ogni tempo, che aveva fuso la sua cultura con quella europea in un canto cinematografico davvero inusuale e per questo irripetibile.

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