Georgetown, di Christoph Waltz

Fiacco esordio alla regia dell’attore che porta sullo schermo una storia realmente accaduta raccontata in un articolo del The New York Times Magazine. dove Waltz si prende tutta la scena.

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Si tratta probabilmente di una coincidenza, ma quando molti grandi attori esordiscono alla regia si rifugiano in opere dall’impostazione teatrale e/o letteraria. I risultati possono essere convincenti (Al Pacino con Riccardo III – Un uomo, un re) o deludenti (Dustin Hoffman con Quartet o George Clooney con Confessioni di una mente pericolosa). Georgetown, debutto dietro la macchina da presa di Christoph Waltz appartiene a questa seconda categoria anche se non mancano scatti imprevedibili nel mostrare la follia e la crudeltà in un ambiente claustrofobico la cui lezione probabilmente l’attore di origine austriaca l’ha presa da Polanski sul set di Carnage.

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Sui titoli di testa Waltz si firma solo con la lettera iniziale del nome, come a nascondere parte della sua firma. Ma in realtà non nasconde tutta una messinscena incentrata sul suo protagonista, interpretato da lui stesso, perché probabilmente gli interessa mostrare soprattutto il fascino del male che però dipende esclusivamente dalla sua performance e non contamina un’atmosfera che dovrebbe essere malata e che invece risulta piuttosto fredda.

Basato sull’articolo The Worst Marriage in Georgetown di Franklin Foer pubblicato sul “The New York Times Magazine” e scritto da David Auburn (premio Pulitzer nel 2001 per Proof), Georgetown racconta la vicenda di Ulrich Mott, un misterioso tedesco che si è fatto conoscere nell’alta società di Washington dopo che ha sposato Elsa Brecht (Vanessa Redgrave), una ricca e stimata giornalista molto più anziana di lui. Nell’abitazione della donna, che si trova nel quartiere di Georgetown, Ulrich organizza spesso cene con alcuni dei personaggi più in vista. All’occorrenza è maggiordomo e anche abile conversatore. Questa relazione è malvista dalla figlia della donna, Amanda (Annette Bening) docente di Diritto Costituzionale ad Harvard. Quando una sera Elsa viene trovata morta i sospetti si concentrano immediatamente su Ulrich.

C’è l’immagine iniziale del protagonista con la divisa che guarda il suo esercito. Waltz già presenta l’allucinazione del suo personaggio, lo scarto tra quello che vede lui e la realtà oggettiva che forse è proprio l’elemento più interessante del film. Ma Georgetown poi forza la mano nella ricostruzione dei frammenti prima del delitto attraverso flashback dove gli stessi protagonisti sono volutamente caricati. Il film di Waltz però non sembra reggere un peso del genere. L’ambientazione temporale (il Capodanno del 2000, Bush in tv) diventa solo uno sfondo scenografico dove l’attore si prende tutta la scena per sé, attraverso le sue espressioni di compiaciuto disgusto, di apparente impassibilità dopo l’arresto davanti l’abitazione o di rabbia soppressa dopo che all’ambasciata irachena si sono presi gioco di lui. Waltz modella i caratteri del suo personaggio su quello interpretato per Tim Burton in Big Eyes. Ulrich Mott è una reincarnazione di Walter Keane, che aveva spacciato per suoi i dipinti della moglie Margaret. Il fascino della truffa però in Georgetown è sbiadito e lo stile modellato su un giallo tratto da Agatha Christie. Oltre alla compiaciuta e disturbante performance di Waltz, che si porta dietro caratteri autobiografici (un cittadino tedesco emigrato negli Usa), resta ben poco.

 

Titolo originale: id.
Regia: Christoph Waltz
Interpreti: Christoph Waltz, Vanessa Redgrave, Annette Bening, Corey Hawkins, Noam Jenkins
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 99′
Origine: USA, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.2 (5 voti)
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