Kripton, di Francesco Munzi

Impossibile restare inermi di fronte a questo deflagrante documentario su sei ragazzi di una comunità terapeutica. Il reale del disagio mentale esplode attraverso la finzione. Special Screenings

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La malattia mentale, come dice uno dei ragazzi protagonisti in una folgorante auto-diagnosi fatta con l’impareggiabile lucidità di chi ne è afflitto da anni ma ormai ha imparato ad accettarla come una parte ineludibile di sé, è “come un terremoto” o meglio, come una serie di scosse che periodicamente ma senza preavviso arriva e sconquassa la mente del soggetto costringendolo, ogni dannata volta, a rimettere insieme i lacerti del pensiero. Una vita funestata dalla maledizione di Sisifo del disagio mentale ed insopportabilmente piena solo di aritmie fisiche ed emozionali, che non consentono a ragazzi come lui di intessere relazioni sane e stabili. Questo straordinario Kripton di Francesco Munzi nasce, come indicato già dalle didascalie dei titoli di testa – quelle del finale invece, che fanno il punto numerico della situazione in Italia e lanciano l’allarme retorico, sono l’unico surplus di un lavoro per il resto eccezionale – dalla convivenza di 100 giorni fatta dal regista e dalla sua troupe con i giovani componenti di una comunità terapeutica alle porte di Roma e le loro famiglie.

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Il documentario porta sullo schermo sei di questi ragazzi, ragazze, donne ed uomini disgregati mostrando tutte le fasi, anche quelle più dure, del loro percorso di recupero. Munzi fa un’operazione che non ha paura di oltrepassare anche i limiti etici dell’occhio del documentarista: le interviste canoniche ai protagonisti o i momenti più drammatici dei loro colloqui con i dottori vengono rielaborati sottilmente utilizzando le tecniche del cinema di finzione. Così i dettagli degli occhi inquieti di Marco Aurelio mentre oscilla sull’orlo dell’abisso quando vede la sorella o le rivelazioni di Georgiana di essere, lei trentenne rumena, la figlia non riconosciuta di Obama, esplodono come se fossero sotto gli occhiali della realtà aumentata del cinema che, difatti, sottolinea particolari che magari sarebbero sfuggiti (lo zoom insostenibile sul viso del fratello durante quest’ultimo dialogo). Una vertigine abrasiva che non può lasciare indifferente nessuno anche per l’altrettanto formidabile lavoro composito di “casting” che si avverte: l’apatico Dimitri capace di dire con flemma sentenze di depressione senza uscita, il sedicente israelita Marco Aurelio che dice di venire da Kripton, la tormentata Georgiana che fa discorsi da brividi sulla “oscurità” che l’attanaglia, l’anoressica Silvia che ha smesso di sognare, la timida Okana dal sorriso splendido e dalle poche ma puntualissime parole. Ma il merito maggiore di Kripton è di instradare attraverso geniali contrappunti – il lavoro espressionista su foto e video familiari – ed un discorso via via sempre più dirompente la MdP su una delle cause primarie di queste forme di malattia mentale: la famiglia borghese, vero incunabolo di inquietudini relazionali tossiche. Perché dare per irrimediabilmente perso il proprio figlio a soli 24 anni, come fa la mamma di Dimitri, è un ostacolo che nemmeno Superman può abbattere.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (6 voti)
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