One Piece, di Matt Owens e Steven Maeda

Alla serie manca il coraggio di osare. Ma ha l’abilità di ragionare sulle formule che fondano il mito di One Piece, rinunciando all’epica pur di inseguire lo spirito scanzonato degli inizi. Su Netflix

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Tra le opere che hanno segnato la cultura popolare del 21º Secolo, pochi testi possono vantare il merito di aver catalizzato l’attenzione di un intero settore. Soprattutto se la cornice di riferimento, come quella delle produzioni fumettistiche di derivazione nipponica, sta rompendo senza sosta confini e barriere culturali, legittimando agli occhi del grande pubblico (e della cultura “alta”) una forma di letteratura che fino a qualche decade fa era confinata al piacere dei soli appassionati, e che adesso è il paradigma di ogni racconto seriale. In questa prospettiva un testo come One Piece non è solo il “volto” dell’industria fumettistica giapponese, essendo il manga più venduto e popolare di tutti i tempi: ma appare come uno dei grandi miti della modernità. E in quanto tale, codifica canoni e universi talmente riconoscibili, da assumere per una vastissima platea di lettori un alone di sacralità. Come accade, appunto, per le mitologie moderne. Approcciandosi allora all’adattamento live-action prodotto da Netflix, alcune domande sorgono spontanee: come è possibile adattare un’opera così vasta e densa, sinonimo ormai da 26 anni dell’esplosione degli attuali manga shōnen, in una produzione che non tradisca – e quindi, dissacri – i codici che l’hanno resa (quasi) una fede?

Potrebbe apparire scontato, ma per rispondere a questa domanda è necessario guardare alle origini dell’opera. Perché se è pur vero che One Piece, nel corso della sua lunga serializzazione, è stato interessato da un gran numero di cambiamenti, evolvendosi in quell’enorme epopea a cui tutti oggi ne associamo l’immagine, i suoi esordi raccontano un’altra storia, dove non c’è (ancora) spazio per le collusioni politiche o per le indagini mitologiche del suo mondo finzionale, ma dove domina una visione più scanzonata ed episodica dell’avventura. Ecco allora che l’adattamento live-action del manga di Eiichirō Oda non punta semplicemente a ripercorrere i primi passi del fumetto, ma a reiterarne lo spirito iniziale. Secondo una scelta che certamente sacrifica la complessità o l’apertura verso l’epica tipica dell’opera originale, in favore di quell’unico stilema che permette ai personaggi di incarnare l’essenza delle loro controparti cartacee: cioè una spregiudicata scanzonatezza di toni e registri.

La storia della serie, neanche a dirsi, ricalca quella del manga: Monkey D. Luffy (Iñaki Godoy) è un giovane avventuriero con il sogno di diventare il “Re dei Pirati”. Per farlo deve trovare il “One Piece”, il fantomatico tesoro lasciato ai posteri dal leggendario pirata Gold Roger, e che ha spinto il ragazzo a solcare i mari insieme alla sua fidata ciurma. Il Governo Mondiale, coadiuvato dalla Marina, si oppone ai disegni di conquista dei pirati, molti dei quali – tra cui Luffy – possiedono dei formidabili poteri derivati dai “Frutti del Diavolo”. Ma i nemici si trovano in ogni angolo di mondo, e le insidie che sottendono metteranno a dura prova non solo l’incolumità fisica di chi li affronta, ma la natura stessa delle relazioni umane.

Non è un caso, allora, che per questo suo primo ciclo di episodi, la serie Netflix abbia scelto di focalizzarsi più sui rapporti interpersonali tra i membri della ciurma, e meno sull’esplorazione diegetica del mondo in cui sono calati. L’avventura verso l’ignoto, e l’alto grado di azione a cui si presta, sono naturalmente presenti. Ma ciò che interessa qui agli autori è la mitopoiesi, la volontà di raccontare le basi da cui si origina il mito di One Piece. E il modo più saggio e corretto per farlo è partire dal cuore del racconto, dall’elemento cardine a cui gli spettatori ancorano il loro investimento emotivo: i personaggi. Se gli showrunner non avessero stabilito una connessione profonda tra i protagonisti, è chiaro come tutto il racconto avrebbe perso sin dall’inizio di credibilità. Ma al tempo stesso sarebbe venuto meno anche un altro elemento centrale della serializzazione: cioè la possibilità di costruire una storia dal largo respiro, che si evolva orizzontalmente nel corso di più stagioni, ricalcando le trasformazioni dell’opera che si va ad adattare.

Da questa prospettiva, il fatto che la serie scelga di giocare sul sicuro non è per forza di cose un difetto. Certo, in questo One Piece manca sicuramente il coraggio di osare. Ma in assenza di un autore visionario – come, ad esempio Miike – che traduca i linguaggi del manga shōnen in un racconto che guarda alle estetiche del fumetto senza perdere la sua natura cinematografica, diviene logico puntare sulla semplicità. Anche perché la serie, per giustificare il suo investimento produttivo, deve sì rispettare gli appassionati del manga, ma ha la necessità di catturare l’amplia platea dell’utenza Netflix, composta perlopiù da fasce anagrafiche lontane dal fenomeno One Piece. Inoltre bisogna anche considerare i precedenti: la stessa Netflix è rimasta fin troppo scottata dalla cocente delusione di Cowboy Bebop, e per evitare di scadere nell’ennesimo adattamento fallimentare ha scelto di fare un passo indietro. Di ritagliarsi una piccola finestra su un universo più ampio e complesso, per concentrarsi ora sui sentimenti che fondano i suoi intrecci.

Quel che risalta dalla visione di questa prima stagione è una sensazione di positiva incompletezza: i suoi limiti sono ciò che rendono universalmente godibile il racconto per chiunque lo guardi, neofiti o appassionati che siano. Inoltre, per quanto questo One Piece non abbia alcuna intenzione di osare, la narrazione presenta evidenti margini di miglioramento. Ma la possibilità di evolversi sarà determinata non solo dalla capacità di estendere gli orizzonti oltre la sua porzione di racconto, con tutto ciò che ne deriva in termini di intrecci narrativi, di dinamiche di potere e di respiro poetico: ma di selezionare con cura il materiale da raccontare. Data l’ampiezza della narrazione, appare fondamentale già dalla prossima stagione distinguere tra ciò che entra nel racconto, e ciò che è destinato al fuori campo, in modo da restituire spessore ad ogni cornice narrativa. Una situazione, questa, certamente non facile da gestire, e che potrebbe portare la serie ad implodere per mezzo di un eccesso di reverenza verso il fumetto. Costringendo così One Piece ad ammainare le vele, ancor prima di intraprendere la rotta per la (sperata) evoluzione.

Titolo originale: id.
Regia: Marc Jobst, Emma Sullivan, Tim Southam, Josef Wladyka
Interpreti: Iñaki Godoy, Emily Rudd, Mackenyu, Taz Skylar, Jacob Romero Gibson, Vincent Regan, Jeff Ward, Morgan Davies, Peter Gadiot
Distribuzione: Netflix
Durata: (stagione 1) 8 episodi da 49-64′
Origine: USA, Giappone, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
Sending
Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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