Oppenheimer, di Christopher Nolan
Forse il film più riuscito di Nolan. Costruito su uno squilibrio formale e narrativo sin troppo pensato ma che sa cogliere lucidamente un decisivo cambio di paradigma nella visione del mondo.
“È la bomba non esplosa, il pericolo che nessuno sapeva fosse reale… quella è la bomba che ha il potere di cambiare il mondo”. L’ultima frase di Tenet, pronunciata dal personaggio onnisciente di Robert Pattinson sul primo piano del protagonista John David Washington, sembra anticipare in maniera sin troppo nitida la quaestio etica al centro del successivo Oppenheimer. Andando a ritroso, proprio come in una scena di quel film, veniamo a conoscenza di un algoritmo che riesce a invertire l’entropia della materia rendendoci parte di una guerra del futuro. Un algoritmo inventato da una scienziata definita non a caso “l’Oppenheimer della sua generazione”. Ecco, che Christopher Nolan fosse un autore estremamente consapevole della sua sfera referenziale non è certo una novità, ma è comunque utile considerare Tenet e Oppenheimer come due universi paralleli e autoriflessivi messi in fertile dialettica. Nel primo il regista/sceneggiatore costruisce un personaggio senza nome e identità, totalmente ignaro di ogni evento (narrativo) che gli si scatena intorno, per poi renderlo letteralmente “il protagonista” di una missione che ha come scopo evitare l’apocalisse nucleare per “salvare il mondo da come avrebbe potuto essere”. In Oppenheimer fa l’esatto opposto: preleva un assoluto protagonista della storia novecentesca e lo fa diventare pian piano “lo spettatore” inerme e addolorato di un futuro ipotetico, il nostro, in cui grazie alle sue intuizioni l’umanità ha ormai acquisito il potere di decretare la sua estinzione. Insomma, due film speculari che ragionano sul delicatissimo rapporto tra scienza, etica, potere e informazioni, stressando ed esaltando il dispositivo cinematografico per produrre senso nell’unica dimensione posta in fuoricampo. Il nostro presente.
American Prometheus
Ma andiamo con ordine. Basandosi sulla fluviale e dettagliatissima biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin (American Prometheus, Premio Pulitzer nel 2006), Nolan rompe come di consueto ogni linearità d’azione e intreccia tre linee temporali nella vita del “padre della bomba atomica”: nel 1942 Robert Oppenheimer (Cillian Murphy nel ruolo della vita) è incaricato dal generale Leslie Groves (Matt Damon) di guidare il Progetto Manhattan per arrivare alla costruzione di una bomba a fissione nucleare prima della Germania nazista; nel 1954 la Commissione per l’Energia Atomica interroga Oppenheimer sulle sue passate frequentazioni con il partito comunista americano e sulla sua attuale ritrosia alla sperimentazione della bomba a idrogeno; infine, nel 1959, il segretario al commercio Lewis Strauss (Robert Downey jr.) viene ascoltato in varie audizioni del Senato americano sui suoi rapporti con Oppenheimer e su presunte manipolazioni di molte verità per meri fini personali (prima che ideologici). In queste tre linee temporali incontriamo decisivi personaggi storici (interpretati da un numero impressionante di divi, difficili anche da nominare in una singola recensione) che strutturano un mosaico stilisticamente e narrativamente troncato in due da un evento. O meglio, dall’Evento per antonomasia. La detonazione del primo ordigno nucleare della storia, il Trinity test del 16 luglio 1945 nel deserto di Los Alamos, esperimento che non solo cambierà il corso della Seconda guerra mondiale “ma cambia definitivamente il mondo” (come sintetizza il fisico danese Niels Bohr interpretato da Kenneth Branagh).
Lo sguardo oltre la materia
Ecco il perfetto algoritmo nolaniano: tre linee temporali orizzontali (la scienza, il potere, la redenzione) e due blocchi verticali (divisi dalla bomba come rivelazione di un nuovo ordine mondiale). Nella notevole prima parte del film Nolan concepisce ogni inquadratura come estensione dello sguardo di un geniale fisico-teorico che utilizza la sua conoscenza per disarticolare la materia (decisivo in tal senso l’utilizzo della pellicola 70mm IMAX) riportandola a pura radiazione elettromagnetica (quindi a particelle di luce) con effetti di polverizzazione del visibile. Del resto, il ventenne Oppenheimer di Cambridge definisce i suoi studi come una “attività astratta”. Ecco che le immagini di Nolan (come mai prima) si aprono improvvisamente a dimensioni altre del sensibile seguendo disinvoltamente le suggestioni di Picasso, Stravinskij, T.S. Eliot, in una prima mezz’ora concepita come una sorta di sinfonia visiva di madeleine proustiane che arrivano paradossalmente dal futuro e comunicano solo messaggi di morte (proprio come in Tenet, appunto): “adesso sono diventato morte, il distruttore di mondi”. Sin dalla prima inquadratura, pertanto, Robert Oppenheimer riflettere sull’avvento della meccanica quantistica come sguardo necessariamente complesso sul mondo.
Verso Trinity…
Uno sguardo che diventa sotto i nostri occhi sempre più cupo, consapevole e impaurito, assecondando gli enormi quesisti sui limiti della scienza impastati con l’ambizione personale e con le contingenze della Seconda guerra mondiale (tra i nazisti come nemici del presente e le ombre sovietiche come controparte del futuro). Il climax narrativo tanto atteso, il Trinity test, viene immaginato come un buco nero delle percezioni (una sorta di Interstellar…) che risucchia ogni suono restituendoci frammenti di luce (Oppenheimer è l’unico a guardare il fenomeno accanto a una macchina da presa…) e definendo in maniera chirurgica quello che diventerà il nuovo campo di percezione del Secolo breve. L’immagine in movimento, il cinema. Lo spettacolo terribile del primo esperimento atomico, con la costruzione di un enorme set a Los Alamos e poi con la detonazione dell’immagine mancante della modernità, porta con sé i fantasmi in fuori campo dell’indicibile apocalisse di Hiroshima e Nagasaki. Ed è questa la parte più libera e densa del film di Nolan, con le auricolarizzazioni interne di un personaggio che fa esplodere continue bombe emotive represse. Sarebbe interessante rivedere queste sequenze in parallelo con l’indimenticato episodio 8 della terza stagione di Twin Peaks: l’avvento dell’antropocene come nascita di Bob in una abbacinante esplosione di segni astratti che seminano referenza nel nostro mondo. Sì, perché l’astrattismo di Lynch e il razionalismo di Nolan, di solito posti agli antipodi, si sfiorano qui per pochissimi e decisivi frame. Quelli che bastano per provocare una vertigine nel nostro sguardo e un cambio di paradigma nella visione del mondo.
…dopo Trinity
In questo senso va anche interpretato il tanto pubblicizzato “ritorno in sala”. Nolan non cerca un’esperienza tec-nostalgica (alla Tarantino) o un’utopia tecno-estetica (alla Cameron), bensì struttura una precisa strategia formale che ha bisogno dell’immersione in questo dispositivo analogico per dispiegare tutti i suoi orizzonti di senso. Ogni inquadratura di questo film esige di essere guardata su grande schermo ed esige uno spettatore capace di astrarsi totalmente dalle (piatta)forme interattive dei nuovi ambienti mediali. E poi, dopo Trinity, inizia un nuovo film. Con Robert Oppenheimer sempre più in bianco e nero, roso dal senso di colpa e in cerca di redenzione (“i fisici hanno conosciuto il peccato e da questa consapevolezza non potranno mai liberarsi”). E con gli equilibri narrativi sbilanciati verso il thriller politico sui fantasmi del maccartismo nel quale solo la moglie Kitty Puening e il ricordo amoroso di Jane Tatlock (interpretate rispettivamente da Emily Blunt e Florence Pugh, bravissime entrambe) riescono a preservare l’ultimo afflato umanista. Questa è la parte più tradizionalmente nolaniana, geometrica, fredda, che tende a costruire con pazienza un the prestige narrativo custodito sin dalle prime inquadrature dal mentore Einstein. Ci risiamo, certo. Ma questa volta il discorso filmico del regista-prestigiatore-demiurgo è un po’ meno ingombrante del solito, perché è la densità della materia narrata a garantire la nostra aderenza emotiva.
Concludendo, con i suoi pregi e difetti, Oppenheimer è un film importante per il XXI secolo (come sentenzia Paul Schrader) ed è probabilmente il film più riuscito di Christopher Nolan. Un film costruito su uno squilibrio narrativo e formale sin troppo pensato (e dialogato…) ma che sa cogliere in maniera lucidissima il perturbante balenare della bomba nella storia (e nelle storie) come rottura del tempo lineare e creazione di un nuovo cyberspazio. Nuovi colori, umori e formati dell’immagine che ridisegneranno i confini visibili del mondo tra orizzonti utopici e previsioni distopiche, fusioni fredde di estatica rivelazione e guerre fredde di lugubre manipolazione. Insomma, Cillian Murphy/Robert Oppenheimer chiude gli occhi e interroga urgentemente il nostro presente… per un film del 2023 non è certo una cosa da poco.
Titolo originale: id.
Regia: Christopher Nolan
Interpreti: Cillian Murphy, Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh, Benny Safdie, Matthew Modine, Tom Conti
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 180′
Origine: USA, UK, 2023
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Oppenheimer, appena visto, credo sia un capolavoro di Nolan come studio su più piani, che va all’essenza di un gesto prometeico della nostra storia, e di tutte le feroci ambiguità insorte.