The Father – Nulla è come sembra, di Florian Zeller

Anthony Hopkins e Olivia Colman in un dramma senza storia che è quasi un esperimento emotivo, tratto dalla pièce dello stesso Zeller. Sei nomination agli Oscar 2021

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La più interessante tra le analogie che uniscono il cinema alla memoria è il poter ricostruire il tempo. Nei film come nei ricordi la realtà che appare è sempre frutto di una ricostruzione del passato dove agiscono soprattutto fattori emotivi. La settima arte, che è stata spesso al servizio di atti etici in quanto strumento di testimonianza, è diventata magazzino di memorie così come di percezioni: per quanto i videogiochi o le nuove tecnologie VR siano sulla buona strada, ancora rimane la forma migliore nell’esprimere un vissuto, riuscendo a mostrare un punto di vista altrimenti impercettibile. Oltre alla posizione documentaristica, infatti, che racchiude una memoria storica, il cinema è strumento di rielaborazione. Si possono creare nuove memorie anche tramite una storia di finzione, divenendo un filtro catartico per vittime reali che non possono raccontare/spiegare/tramandare il proprio disagio o situazione traumatica.

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Come sapere esattamente cosa vive ogni giorno chi soffre del morbo di Alzheimer? Saperlo, o almeno avvicinarcisi, è stato reso possibile dalle caratteristiche peculiari dell’arte cinematografica che, oltre a far provare quella sensazione a un gran numero di spettatori – svolgendo così una funzione educativa – è efficace nel trasmettere memorie vicarie, in quanto la visione implica un coinvolgimento sensoriale, emotivo e mentale dello spettatore.

Presentato al Sundance Film Festival 2020 e reduce da sei nomination ai prossimi Oscar, The Father è un dramma diretto da Florian Zeller e tratto dalla sua omonima pièce teatrale del 2012. Anthony Hopkins e Olivia Colman impersonano una vera e propria situazione emotiva per niente atipica. La storia è quella di Anthony, un uomo anziano probabilmente afflitto dal morbo di Alzheimer, che ne affronta i sintomi: smarrimento, confusione, sbalzi d’umore, deformazione della realtà; il tutto senza rendersi conto della malattia e del suo progredire, continuando a rifiutare l’aiuto continuo da parte della figlia, Anne, sempre più preoccupata e avvilita nel vedere il padre perdere lucidità. Nella ricerca di qualcuno che possa occuparsi di lui, i due affrontano – attraverso i rispettivi ruoli di padre e figlia, entrambi a proprio modo vittime di quella patologia atroce – l’avanzare della malattia e la perdita dell’identità, di ciò che lo rende quindi una persona. L’ansia della figlia cresce quando comunica al padre che, per consolidare una nuova relazione, sta per trasferirsi in un’altra città.

In questo flusso costante di memorie – e non memorie – riuscirà Anthony ad aggrapparsi al suo passato per capire il suo presente e ritrovare la propria identità?

Un dramma sobrio, per nulla mellifluo, che mette in risalto una realtà quotidiana pregna di dolore. È risaputo che, tendenzialmente, quando si ha una determinata malattia i “portatori” smettono di essere visti come persone e diventano malati. É importante superare lo stigma e iniziare a guardare oltre, riconoscere l’individualità della persona, che sebbene colpita dalla malattia non è per questo “scomparsa”. Anthony è ancora una persona, e uno che sta subendo la peggiore delle ingiustizie: perdere la propria memoria significa perdere la propria identità, quindi esistere smettendo di essere. E non è da meno chi deve stare a guardare, come Anne, costretta a piangere la perdita del padre anche se lui è ancora vivo.


C’è un puzzle da ricostruire, ma non annotando ogni appunto sullo smartphone come l’Alice di Julianne Moore (Still Alice) o ricoprendo il corpo di tatuaggi come fa il Guy Pearce di Leonard Shelby (Memento), bensì attraverso le suggestioni di un luogo, di un appartamento ove si è vissuta una vita, in attesa di quei pochi ricordi che il cervello riesce ancora a tenere in vita. Non a caso la scenografia ricopre un ruolo da protagonista: la storia si muove ipoteticamente in diversi spazi ma in realtà ne vive solo uno, l’appartamento, che sopravvive nei ricordi di Anthony; una sola location come punto di riferimento dove poter trovare se stessi, e al massimo sbirciare all’esterno dalla solita finestra sulla strada per verificare che sia tutto al posto giusto, un appartamento che fa da contenitore per le confusioni e i sentimenti dei suoi abitanti. L’ambiente ricorda l’aridità rimasta dopo una vita vissuta espressa dall’Amour di Haneke, in cui la casa esiste, respira, conosce ogni segreto. L’esterno è tutto in ordine, ben posizionato, quasi in attesa; ma dentro c’è uno caos che mette tutto in disordine. 

The Father non è il primo film a trattare di Alzheimer o demenza senile, ma si distingue nel modo in cui la racconta: attraverso lo sguardo di chi ne è vittima, mostrando ciò che vede, sente, vive. Due interpreti maestri dell’emotività controllata portano addosso il peso di una storia, o forse non storia; un esperimento che parte dal teatro e passa per il cinema, ma che soprattutto vuole essere un’esperienza multimediale di narrazione in cui vengono manipolati luogo, tempo e spazio per arrivare a un fine. Siamo lontani dall’effetto de Il sesto senso o di Fight Club: non si cerca di “imbrogliare” lo spettatore attraverso la distorsione della realtà, ma di renderlo partecipe a questa forma di verità che esiste, che accade. Come Fincher ha dato al pubblico gli stessi occhi e orecchie di Edward Norton, facendolo entrare nella sua mente psicotica, Zeller fa lo stesso senza necessità del colpo di scena finale; il pubblico, messo in una condizione di sovrapercezione, qui è consapevole da subito del problema che affligge i personaggi. Ed é importante che lo sappia. Un gioco che spinge a chiedersi chi sia realmente il protagonista: gli attori o gli spettatori?

Ricordi, volti e luoghi si mescolano nella mente dell’anziano protagonista così come agli occhi del pubblico. In questo caso non c’è l’analisi della malattia o lo svilimento per la perdita che questa comporta, ma c’è la rappresentazione di un perenne stato confusionale che rende tutti partecipi della crudeltà intrinseca di una malattia che è cosi reale. Un declino interiore che ristagna nella perdita d’identità, che portata avanti nella consapevolezza crea una risposta di non accettazione, e lo si percepisce non solo dalle reazioni ma anche dai volti. Ma Anthony, seppur infrenabile, può soltanto limitarsi a seguire quel che succede – la narrazione – nel suo svolgersi univoco e senza controllo, nel dolore nostalgico per la perdita di mondi e tempi perduti.

Nel film la realtà vera prende forma attraverso il (non) racconto frammentato di Anthony, ciò che ricorda e che vede come dei flashback cinematografici, ricreando in un certo senso – sempre nel connubio memoria-cinema – il montaggio della sua esistenza.

La memoria rappresenta il meccanismo attraverso cui l’uomo costruisce una narrazione del sé, e il film il contenitore che imprime le immagini di questa memoria, come ricordi che prendono vita in proiezione. Sia nel film che nella memoria le sensazioni passate possono riaffiorare dal nulla; le memorie sono proiettate nella mente come in una sala. Nel film come nei ricordi il tempo non è lineare, ed entrambi fungono come mezzo per viaggiare tra passato e presente.

 

Vincitore di 2 Premi Oscar:
Miglior attore protagonista: Anhony Hopkins
Miglior sceneggiatura non originale: Florian Zeller, Christopher Hampton

 

Titolo originale: id.
Regia: Florian Zeller
Interpreti: Anthony Hopkins, Olivia Colman, Olivia Williams, Rufus Sewell, Evie Wray, Mark Gatiss, Imogen Poots, Ayesha Dharker
Distribuzione: BIM
Durata: 97′
Origine: Gran Bretagna, Francia, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.71 (66 voti)
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