Vivere e morire con William Friedkin

Omaggiamo il grande regista americano e la sua filmografia senza compromessi, coraggiosamente ambigua, in parte celebrata dalla storia del cinema e in parte da riscoprire.

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Nel cinema di William Friedkin non c’è spazio per le cazzate. Si può crepare, uccidere o salvare la vita a qualcuno nell’arco di uno, due fotogrammi. Ne sa qualcosa William Petersen nel pre-finale di Vivere e morire a Los Angeles (1985): una fucilata in pieno volto ad annientare il poliziotto protagonista e le sue ossessioni. Boom. Avanti un altro. Un detective di LA indaga su un falsario/pittore/assassino e viene ucciso. Subentra il collega poliziotto che è pronto a tutto pur di vendicarlo. E viene ucciso. E così via in un circolo infernale, come le fiamme che divampano all’inizio e alla fine del film. Che roba incredibile Vivere e morire a Los Angeles! Il poliziesco pessimista che tanti registi per decenni sognavano di fare e che solo Friedkin, scomparso l’altro ieri a 87 anni, ha fatto. Un film, come è stato scritto da molti, che assorbe definitivamente la pop culture e dove è praticamente impossibile distinguere tra eroi e anti-eroi, bene e male. Ecco, nel cinema di Friedkin la malvagità è sempre dentro e intorno ai personaggi. Aleggia come un demone o un virus che si propaga e contagia tutti indifferentemente.

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È stato veramente il più noir dei registi della sua generazione, l’erede nevrotico e “modernizzato” di Fritz Lang, da lui non a caso intervistato in un documentario del 1975, per anni inedito, e con cui condivideva una visione spesso nichilista sulla natura e sul destino dell’essere umano. Anche se il suo era un cinema alla portata di tutti, di intrattenimento “adulto”, era un cineasta capace di incursioni autoriali iperboliche, rischiosissime, forse persino inconsapevoli. Due film velenosi e straordinari come Il salario della paura (1977) e Cruising (1980) nessun autore degli anni ’70 è riuscito a farli, né Spielberg, né Scorsese, né De Palma. E non c’era mai una vera e propria comfort zone, tanto per il regista, spesso intransigente sul set e nei rapporti con i produttori, quanto per i suoi personaggi e per gli spettatori. Ritornano così alla mente gli epici svenimenti in sala ai tempi de L’esorcista o le accuse, miopi e superficiali, di fascismo per Il braccio violento della legge. Due film entrati nella storia del cinema, realizzati tra il 1971 e il 1973, che hanno di fatto inaugurato la stagione dei Movie Brats e di una nuova industria hollywoodiana capace di mettere d’accordo pubblico, critica e Academy Award, “re-inventando” il poliziesco, l’horror e spianando la strada al blockbuster d’autore.

Friedkin, e buona parte della critica americana, ha sempre considerato L’esorcista il suo capolavoro, “il film per cui sarebbe stato ricordato per sempre”. Ma, come ha dichiarato poche ore dopo la sua morte Francis Ford Coppola, “tutti i suoi film sono vivi del suo genio. Ne estrai uno dal cappello e ne rimarrai abbagliato”. Proprio così. Jade (1995), è un thriller erotico violento e luccicante, capace di unire alto e basso, la politica e i bassifondi di San Francisco e di testare così caratteri e atmosfere di buona parte della serialità di “genere” realizzata successivamente. Basta vincere (1994) è un “piccolo” film sul basket, sulla corruzione e sulla perdita dei valori. Una parabola amara e furente sul capitalismo, che in tanti avrebbero copiato negli anni a venire e che è uno dei grandi titoli “nascosti” del regista americano. The Hunted — La preda (2003) è un action movie che schizza via come un piano sequenza. In apparenza semplicissimo, è in verità astratto ed edipico: i figli psicotici si ribellano all’America militarista dei padri e vanno sacrificati.

C’è poi un’altra cosa. Il cinema di Friedkin istintivo, mai intellettualistico, eppure sempre personale, ha l’inquietante capacità di prevedere gli “eventi”: cinematografici e non solo. Una specie di sesto senso sull’immaginario e sul mondo, che gli deriva forse anche dalla sua iniziale formazione televisiva e documentaristica. E così il suo primo film, realizzato nel 1962 per la televisione di Chicago, The People vs. Paul Crump, è un documentario su un condannato a morte che ha una tale rilevanza mediatica da far modificare la sentenza e salvare la vita al protagonista. Cruising, uno dei suoi capolavori più onirici e subliminali, è il viaggio di un poliziotto in incognito nella comunità gay per scovare un serial killer, ma si rivela come un “notturno” sull’AIDS prima della sua “scoperta”. Quest’opera, per anni incompresa e osteggiata dall’establishment, è invece oggi quasi completamente riabilitata dalla critica e dai fan, con la sua aura maledetta dovuta ai numerosi tagli della censura per le scene sadomaso realmente filmate nei leather bar di New York. (E certo meriterebbe uno spazio a sé il controverso dittico sull’omosessualità composto appunto da Cruising e dal precedente, bellissimo, Festa per il compleanno del caro amico Harold del 1970).

Persino un film ideologicamente problematico come Regole d’onore (2000), finisce con l’anticipare le contraddizioni e le derive reazionarie contro il mondo islamico che gli Stati Uniti avrebbero conosciuto un anno dopo, con l’attentato alle Torri Gemelle. Per non parlare dell’altro capolavoro maledetto, girato tra mille difficoltà produttive in America Latina e sfortunato al botteghino di quel 1977 monopolizzato da Star Wars di George Lucas. Il salario della paura è solo in parte il remake pazzo di Vite vendute di Henri-George Clouzot. È invece in tutto e per tutto l’Apocalypse Now di Friedkin, o il suo Fitzcarraldo. Un’impresa herzogiana e psichedelica, invecchiata benissimo e stabilmente presente nelle top ten di Quentin Tarantino, Ben Safdie, Nicholas Winding Refn, Stephen King, a suggellare l’incredibile influenza che ha avuto sulle generazioni successive. E allora. Adesso che questo grande regista non c’è più, ci resta la straordinaria lezione di un’opera senza compromessi, coraggiosamente ambigua, ruvida e cristallina, in precario equilibrio tra il successo e il fallimento, tra l’inizio e la fine di tutto. Perché si vive e si muore nei film di William Friedkin. E, nel mentre, si fa il cinema.

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