Z.O., di Loris Nese

Un corto sulla decadenza di una città, il racconto intimo di un’amicizia pedinata dalla criminalità o la cronaca dell’assalto dell’astrazione sulla realtà? Di Loris Nese, presentato a #Locarno76

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Salerno rischia di divenire oggi una non-città, quasi di cartone, una finzione della memoria, potenzialmente già in rovina nella zona Est della città”. Le parole di Epifanio Ajello scorrono sulle immagini girate dal sindaco della città Vincenzo Napoli nell’ormai lontano 1983. Con questo archivio si apre Z.O. (abbreviazione di Zona Orientale) di Loris Nese, cortometraggio selezionato al 76esimo Locarno Film Festival nella sezione Pardi di domani. Vediamo prima la città storica, “a misura di pescatori”. Poi, le metastasi della speculazione edilizia, a misura di crescita e progresso. L’immagine si ingrigisce, si rarefà. Sulle linee dei condomini si innestano i tratti bianchi dell’animazione. La voce di Francesco Di Leva (vincitore del David di Donatello per il ruolo in Nostalgia di Mario Martone), più giovane e meno impostata di quella di Ajello, irrompe: “Quando tenevo 15 anni le cose pericolose mi facevano stare bene, perché mi sentivo parte di qualcosa”.

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Fin dai suoi primi 3 minuti, Z.O. sembra mettere in pratica la lezione che Franco Maresco (presente in concorso a Locarno con Lovano Supreme) aveva dato 4 anni fa con La mafia non è più quella di una volta. La contaminazione è padrona, ogni definizione salta. È un documentario sulla decadenza di una città, il racconto intimo di una gioventù pedinata dal fantasma della criminalità o la cronaca dell’assalto dei linguaggi dell’astrazione sulla nostra realtà? Invece di perdersi tra queste diverse e importantissime istanze, il cortometraggio ne diventa un punto di convergenza nel quale questi discorsi dialogano tra di loro. Il centro di gravità attorno a cui tutto ruota è l’amicizia tra tre ragazzi con “soprannomi da criminali”, ossia Biscotto, Banana e Bambolina. Dalla bocca di quest’ultimo provengono le parole che ci guideranno per tutti i 14 minuti di Z.O. sono di quest’ultimo.

La voce è un elemento fortemente ambiguo. È inimitabile, una particolarità unica per ognuno di noi. Eppure, è sempre pronto a farsi altro, a diventare uno sconosciuto inascoltabile. Una voce dice sempre più delle parole che ne fuoriescono. L’animazione parte alla ricerca proprio di questi segni rivelatori. Fa da amplificatore di segnali inconsci, allontanando la storia dalla mera cronaca. Si scende nelle profondità della mente di Bambolina, con tutte le complessità che ne derivano. La vita criminale, così, non viene giudicata, ma compresa nelle sue dinamiche, allo stesso tempo concrete e vaporose, quasi magiche, con codici e nomi capaci di evocare protezioni o antagonismi appena vengono pronunciati.

Si riesce, così, a uscire dalla semplicistica retorica che vorrebbe la criminalità proliferare dove mancano le istituzioni. Z.O. fa un passo di lato, evitando di rimanere in mezzo, tra le scariche di queilo che solitamente viene rappresentato come un duello tra buoni e cattivi. È tutto molto più (dolorosamente) complesso di così. È dove manca un senso di comunità, dove vince l’ottica del dominio su quella dell’aiuto reciproco che gli squali salgono a pelo d’acqua. Non sembra un caso che questo discorso vada di pari passo con il declino della Salernitana, dello scorporo del cleb di tifosi. Diventa, allora, fondamentale concentrarsi su nuovi linguaggi che possano creare nuove forme di aggregazione, anche solamente virtuali, ma comunque in grado di traghettarci al di là del grigiore quotidiano. Che, premendo i tasti di un joystick seduti l’uno accanto all’altro su un divano, sia in corso la declamazione di un nuovo incantesimo, la codifica della nostra nuova libertà?

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