Nostalgia, di Mario Martone
Un film sulla distorsione dei ricordi e sulla difficoltà di accordarsi al proprio tempo. E di inciderlo e trasformarlo. Concorso
“È tutto come un tempo, non è cambiato nulla. È incredibile”. È, più o meno, quello che dice Felice Lasco in una telefonata alla moglie, rimasta al Cairo. La sorpresa di una Napoli immobile, impermeabile agli eventi. Come se si fosse avverato il desiderio del mostro Funiculì Funiculà di No grazie, il caffè mi rende nervoso: Napoli nun adda cagna’! Eccovi serviti. Difatti, Lasco va alla ricerca dei vecchi luoghi dei ricordi e li ritrova intatti, li riconosce nei dettagli, nonostante quarant’anni di distanza, di esilio obbligato da un errore di gioventù tra il Libano, il Sudafrica e l’Egitto. Almeno nel gioco di specchi di Martone, che sovrappone alle strade, ai vicoli e alle spiagge di oggi, le immagini in formato ristretto degli anni ’70 dell’adolescenza del suo protagonista. Ma pur sempre di un artificio si tratta.
Del resto una volta, parlando di Morte di un matematico napoletano, girato nel 1992 in quegli angoli della città che serbavano l’impressione degli anni ’50, Martone ci ha raccontato di un gioco fatto con l’amico scenografo Giancarlo Muselli. Cioè l’idea di tornare a distanza di tempo in quegli stessi luoghi, per “vedere se c’era una sola inquadratura del Matematico riproponibile”. Ebbene no. “Nemmeno una, non ce n’è più una sola, nel giro di 25 anni la città ha divorato tutte le inquadrature del Matematico. Quella città non esiste più”. Ma, allora, qual è la verità? Probabilmente, per rispondere alla domanda basterebbero quei pochi istanti all’inizio, in cui Lasco si affaccia dal balcone del suo albergo nei pressi del Centro direzionale, cioè del quartiere delle dichiarazioni moderniste.
Certo, esistono luoghi che sfuggono alla trasformazione, ma sono soprattutto quelli si aprono nella dimensione più segreta, oscura, sotterranea. La città delle chiese, dei cimiteri e delle catacombe, delle tradizioni inscalfibili e delle devozioni pagane. Cioè la Napoli sospesa tra il mondo terreno e l’aldilà dei santi e dei morti. Dei morti, appunto. Persino la Sanità potrebbe dare l’impressione di questa indifferenza al tempo, con i suoi vicoli, i larghi, i cortili sempre uguali. Con le sue scalinate e discese che disegnano l’apparenza di una Casba nordafricana (“Il Cairo non è molto diverso da qui”, dice Lasco alla madre). Dove persino il degrado e la naturale consunzione dei palazzi sembrano rispondere alla legge dell’eternità. Ma si tratta dell’immagine immobile di una cartolina già pronta per i turisti di domani. E in questo senso, sono chiarissimi i discorsi dell’ultima cena del tour di presentazione che il parroco barricadero, don Luigi, organizza per far conoscere Lasco agli abitanti del quartiere (cena che tra l’altro si chiude con lo stesso imbarazzante disagio dell’irruzione di Scarpetta alla serata della famiglia De Filippo).
Sì, Martone è sempre stato capace di raccontare i vari strati di Napoli. Dall’infuocato caos percettivo de L’amore molesto, ai ventri più oscuri e ribollenti. Fino a quelle sospensioni pulviscolari, che sembrano incrociare un’estasi degli spazi, come in un alcuni dei primi documentari d’arte (Nella città barocca, 1985). O come nello stesso Morte di un matematico napoletano. E sono proprio le peregrinazioni sbandate di Caccioppoli – Carlo Cecchi nella notte dei Quartieri o nelle mattine sul lungomare, quelle sue discese in una Napoli quasi astratta, a prefigurare le passeggiate smarrite di Pierfrancesco Favino in questa specie di spazio sentimentale e mentale. Una città ideale di cui però, a un certo punto, avverti il rischio del crollo. Perché Napoli ha mille occhi, la casa e la strada sono una cosa sola. E, perché, di fatto, le crepe sono troppo profonde, per non aver prodotto una lacerazione totale. Felice Lasco si inganna, la città è cambiata. Ed è qualcosa che riguarda la trasformazione antropologica, ancor prima che l’evidenza architettonica e urbanistica. Quel paese che rivendica come il suo è un’illusione, una specie di miraggio creato dal dolore della separazione. In una scena di durissima tenerezza, alla vecchia e stanca madre, che lo ha atteso per anni, dice “facciamo che io sono il tuo bambino”. Ed è un chiaro desiderio di regressione…
Ma, in fondo, il cinema di Martone non è mai stato nostalgico. Anzi. Anche quando ha scelto il passato come terreno di confronto, ha sempre raccontato un tempo tutto suo, dominato dall’eresia dell’anacronismo, da connessioni sincroniche, prefigurazioni spiazzanti, da armonie e disaccordi. Transavanguardia… E per questo il titolo dell’ultimo romanzo di Ermanno Rea, che è alla base di tutto, potrebbe trarre quasi in inganno sulla prospettiva della sua versione. Che sì, è la storia, tinta di noir, di un fuggiasco sradicato, un film sul peso del passato. Ma è soprattutto un discorso sulla distorsione dei ricordi e sulla difficoltà di accordarsi al proprio tempo. E di inciderlo e trasformarlo. Che è, in qualche modo, la condanna di molti suoi personaggi. Anche se nella contrapposizione tra il disastro avvilente del covo del boss Oreste Spasiano (un gigantesco, demoniaco Tommaso Ragno) e il cortile “edenico” della nuova casa di Felice Lasco, c’è tutta la smisurata differenza che passa tra la disperazione e la speranza.
Regia: Mario Martone
Interpreti: Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi, Nello Mascia, Sofia Essaidi, Emanuele Palumbo, Salvatore Striano, Virginia Apicella
Distribuzione: Medusa
Durata: 117’
Origine: Italia, Francia, 2022