Across the Fandom-Verse: il canone come gabbia multiversale

La minaccia del canone è il terrore di ogni fandom. Fuoriuscire dal percorso prestabilito significa sfidare il fanatismo tossico dilagante

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Al quartier generale multiversale di Across the Spider-Verse, su Terra-928, ha origine una delle sequenze chiave del film. Miguel O’Hara insegue Miles per impedirgli di lasciare Nueva York e, dopo averlo aggredito, fisicamente e verbalmente, rivela al protagonista – e a noi spettatori – la sua vera natura.

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Miles Morales è un errore. Il suo Spider-Man è un errore. O meglio una fuoriuscita. Anomalia diegetica del “polimultiverso aracno-umanoide”; variabile impazzita di un canone, una gabbia, una rete, all’interno delle cui maglie e sbarre Miles non trova posto. E non è il solo. Terra-616 e suoi simili, baluardi delle principali continuity narrative letterarie e audiovisive, sono da tempo “minacciate” da individui alla Morales. Personaggi esteticamente apolidi o dalla caratterizzazione pirata; sconfinamenti creativi rigettati dai fandom e dai loro esponenti più aggressivi. Da chi, come Miguel O’Hara, vi scorge solo un difetto di fabbricazione, deviazioni di una traiettoria prestabilita potenzialmente distruttive e dissacranti.

Non occorre fare molta strada. È sufficiente googlare “tossicità fandom” per accorgersi della portata del fenomeno. Articoli, classifiche, approfondimenti di vario genere; pagine e pagine dedicate a raccontare il lato oscuro di una passione soffocata da dinamiche di branco. E le cui ripercussioni, negli ultimi anni, sono andate progressivamente aggravandosi.

Risalgono al 2018, per esempio, gli insulti indirizzati da parte della comunità Starwarsiana a Kelly Marie Tran, interprete di Rose Tico in Episodio VIII. Attacchi rivoltile online, inizialmente mirati a criticare il personaggio, scaduti poi, inevitabilmente, in offese alla persona. L’attrice statunitense di origine vietnamita, costretta di lì a poco a cancellarsi dai social, costituiva per alcuni fanatici l’ennesima forzatura inclusiva prodotta dal famigerato politicamente corretto; inadeguata imposizione “dall’alto” alla Lore della galassia lontana lontana.
Dietrologie ossessive di cui l’hashtag #notmyariel, nato per screditare il casting di Halle Bailey in qualità di sirenetta nel recentissimo Live action Disney, rappresenta solo l’ultima trista/e incarnazione. Dietrologie ossessive che, sfortunatamente, non smettono di gettare radici e proliferare nelle sezioni commenti della Rete; scantinati telematici per leoni da tastiera e manifestazione distorta di quei quindici minuti di “famosità” teorizzati da Warhol nel ’68. Qui votati alla più becera intolleranza.

Razzismo e sessismo, tuttavia, sono soltanto declinazioni liminari di un fenomeno ben più complesso e radicale; un fenomeno che da origini lontane nel tempo e nello spazio – gli Stati Uniti degli anni ’30 – si è poi indissolubilmente legato alle molteplici spelonche aggregative del Word Wide Web (forum, webzine e successive evoluzioni). All’interno di questo sistema, che conta intere schiere di appassionati di qualsivoglia franchise cinematografico o seriale di successo, la vacuità argomentativa dei sopracitati estremisti si affianca infatti, non di rado, all’integralismo tossico di altri “confratelli”. Individui il più delle volte autoelettisi depositari e custodi di un sapere; sentinelle di un culto e di una verità assoluta e immodificabile. Degni portavoce di una fan culture che, scriveva lo studioso John Fiske nel ’92 in “The Cultural Economy of Fandom”, non fa alcun tentativo di far circolare i suoi testi al di fuori della propria comunità.

In effetti l’amore – o sarebbe meglio dire devozione? – che buona parte degli adepti al fanatismo più velenoso provano nei confronti dell’opera originale, così come è stata partorita dalla mente dell’autore, è preoccupantemente assimilabile ad un sentimento di attaccamento morboso e gelosia. Un sentimento di elitaria esclusività spesso accompagnato dal terrore di uno stravolgimento della stessa. E dalla paura irrazionale che qualsiasi tipologia di mutamento, novità o rilettura non possa che condurre a uno scenario apocalittico a tinte bradburyane, con distruzione e cancellazione degli autografi al seguito.

Non è dunque un caso se, a dispetto della sacrosanta plasmabilità del “disegno” tolkeniano, invocata dallo stesso autore in una lettera inviata all’amico Milton Waldman nel 1951 – nella quale dichiarava di lasciare “spazio ad altre menti e altre mani” – numerosi siano i cultori del lavoro del professore insorti ormai dieci mesi or sono contro la serie Gli anelli del potere. Progetto a loro dire incapace di cogliere lo spirito delle opere letterarie, irrispettoso della materia da cui trae origine e pregno di elementi (su tutti la caratterizzazione della nobile Galadriel o la presenza dell’elfo Arondir, personaggio inventato dagli showrunner) in aperta contraddizione con gli scritti. Meritevole pertanto di una shitstorm incontrollata e incontrollabile, iniziata fin dal rilascio delle prime immagini e mai realmente placatasi.

Così come non sorprende, considerate premesse di questo genere, l’enorme processo di riscrittura subito dal film Black Panther: Wakanda Forever, in seguito alla prematura scomparsa dell’interprete protagonista Chadwick Boseman. Forse il caso più eclatante del recente periodo.
Laddove, fino a qualche anno fa, si sarebbe difatti provveduto a un recasting del personaggio, la produzione ha invece optato per la stesura di una nuova sceneggiatura che inglobasse la realtà del dramma nella fiction. Un’operazione dai toni smaccatamente commerciali, volta a raccogliere il consenso del fandom Marvel – fallendo per giunta nel tentativo – e abilmente mascherata da Kevin Feige come scelta necessaria a contribuire alla fase di elaborazione del lutto collettiva.

E non finisce qui. La lista è lunga, in costante aggiornamento; ma da ogni dove, qualunque sia l’opera oggetto del dibattito, i discorsi sono pressoché i medesimi. Discorsi che, è bene ricordare, esulano dalla qualità effettiva del prodotto o dall’inalienabile diritto di ogni spettatore alla critica, all’espressione del proprio parere o gusto. Discorsi che, nella maggior parte dei casi, nascono preliminarmente, a scatola chiusa, minando dunque la credibilità di un atteggiamento che, lo ripetiamo, ha ormai assunto sempre più i contorni di una possessività malsana e ingiustificata.

Torniamo così ad Across the Spider-Verse. Torniamo alla fuga di Miles, al volto spiritato di Miguel O’Hara, alla repentina trasfigurazione del leader positivo nel “cattivo”. A un accanimento, fuor di metafora, che al di là di analisi o dettagliate disamine sfugge ad ogni logica. Perché viviamo l’epoca dei multiversi impazziti, ma ne pretendiamo il totale e paradossale controllo. E perché il sentiero sul quale ci siamo incamminati conduce ad un mondo dominato dal già debordante fan service (No Way Home, The Flash). A una struttura chiusa, prevedibile, intrisa di riferimenti interni, dove il senso d’attesa e di curiosità per il racconto ha in parte già lasciato il posto a una cinica check-list di cult quotes, camei di vecchie glorie e nostalgici omaggi.

Qualche settimana fa ipotizzavamo di abitare la Terra sbagliata. Forse invece il difetto di programmazione è dentro di noi. Noi puristi, noi canonici, noi noiosamente ed ostinatamente ostili; immersi fino alla gola nel livore del nostro dissenso militante, ad annaspare nel nome di una libertà creativa di cui sovente amiamo farci scudo e che, al contempo, sembriamo ansiosi di rinnegare ed inibire.

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