Cry Macho – Ritorno a casa, di Clint Eastwood

Non è certo il miglior film di Eastwood, ma in quel raggio di luce salvifico che avvolge il tormentato protagonista trova una sua lucida e commovente urgenza

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Guess it’s really never too late, To find a new home” canta Will Banister mentre l’inquadratura si apre sui campi lunghi della frontiera texana attraversata da un vecchio furgone Chrysler. Il sole è al tramonto, i cavalli si muovono liberi e i dettagli del guidatore (le sue mani rugose, gli occhi riflessi nello specchietto) diventano come estensioni di quel paesaggio. Naturalmente, è Clint Eastwood a scendere da quel veicolo inquadrato dal basso verso l’alto come una sorta di monumento del western: ben prima che ci venga presentato il protagonista di questo Cry Macho, insomma, è lo statuto iconico dell’attore-regista novantenne a stabilire ogni coordinata immaginaria di riferimento. Quel volto scultoreo e segnato dal tempo funziona quasi da establishing shot sull’intera storia del cinema americano, una sorta di totale che ci fornisce ogni informazione necessaria alla comprensione e all’interpretazione del film.

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Partiamo. Mike Milo – ex star del rodeo ed ennesima figura paterna tormentata nella galleria eastwoodiana – entra nel suo vecchio ranch per essere sbrigativamente licenziato: “non sei più una perdita per nessuno!” gli dice sprezzante il capo Howard Polk. A questo punto Mike si siede lentamente a guardare la wilderness, in un’inquadratura che si astrae dalla narrazione condensando decenni di storia del western americano senza nessun accenno nostalgico o vintage. Il cinema di Eastwood, del resto, non ha mai avuto la minima esitazione a declinare le propri immagini al presente senza nessun filtro retorico che non fosse percepito come autenticamente “classico”.

Facciamo un passo indietro, allora. La sceneggiatura di Cry Macho firmata da N. Richard Nash nei primi anni Settanta ha avuto una vita parecchio tribolata a Hollywood, tanto da convincere lo scrittore americano a trarne un romanzo abbandonando provvisoriamente il progetto cinematografico. Il successo editoriale, però, riporta quella storia al cinema passando prima sulla scrivania di Arnold Schwarzenegger e poi su quella dello stesso Eastwood senza mai trovare il modo di arrivare sul grande schermo. Sino a a quando, quarant’anni dopo, il fido Nick Schenk riadatta il materiale di partenza facendolo diventare la perfetta conclusione di un’ideale trilogia – dopo Gran Torino e The Mule – con Clint che torna a vestire i panni dell’anziano protagonista (negli ultimi quindici anni lo ha fatto solo per i tre film scritti da Schenk, ci sarà una ragione).

La trama è oltremodo lineare. Un anno dopo il licenziamento, nel 1980, Mike Milo viene ricontattato dal suo ex capo Howard per una missione privata: attraversare il confine messicano, trovare suo figlio adolescente Rafael Polk (detto “Rafo”) e riportarlo a casa sfuggendo dalla sua pericolosa ex moglie. C’è un debito di sangue che costringe Milo ad accettare questa ambigua missione: inizia così l’ennesimo viaggio verso la frontiera per espiare colpe passate (la perdita della propria famiglia, gli anni di alcolismo) e trovare una qualche redenzione terrena. Senza troppi fronzoli ci troviamo catapultati a Città del Messico tra lotte di galli clandestine e pericolose ville in stile gangster movie, ma la detective story si risolve in poche scene e senza troppa enfasi proprio perché: “Rafo ti darà retta appena ti vedrà, tu sei un vero cowboy!” gli dice Howard. Di nuovo, è la credenza nel volto di Eastwood a consegnare un’indiscussa autenticità a questo viaggio, perché è la memoria condivisa del cinema a compensare gli squilibri della storia. Ecco che l’originaria mitologia del cavaliere pallido incontra la contemporanea mitografia del machismo demitizzato: “credimi, questa storia del macho è sopravvalutata”.

Il movimento verso la frontiera (fisica, morale e sentimentale) torna come inesausto processo di risoggettivazione passando ancora una volta per la nascita di nuovi legami familiari che includono etnie e culture diverse. Ma Cry Macho radicalizza l’elementarità dei conflitti narrativi (un’ennesima storia di paternità acquisita che da Un mondo perfetto a Million Dollar Baby porta ovviamente a Gran Torino) e forse ancor di più quella dei codici di messa in scena (in una spoliazione totale da ogni orpello superfluo puntando solo all’essenza dei momenti presenti). E cosa si sta mettendo in scena, in ultima istanza, in questo film? Un regista-attore novantenne e la sua eredità umana e cinematografica colta nelle piccole variazioni fondamentali di uno spartito già noto.

Variazioni, sì. Nel bel mezzo del viaggio di ritorno – dopo la perdita dell’auto e dopo aver temporaneamente seminato gli scagnozzi della madre di Rafo – i due si rifugiano in un bar per ristorarsi. “I vecchi devono fare siesta”, si dice. Mike chiude gli occhi e una dissolvenza su nero mette tra parentesi un tempo indeterminato… ma quando il protagonista si risveglia Rafo e la padrona del locale Marta sorridono confidenzialmente facendo bruscamente cambiare il tono del film. Basterebbe questa splendida parentesi messicana (che dialoga a più riprese con I ponti di Madison County) per amare incondizionatamente Cry Macho. Il tempo dell’azione viene ora inabissato nelle percezioni rallentate del protagonista che riconosce una nuova casa proprio in quella frontiera messicana percepita in passato come ostile e pericolosa. Ogni semplificazione nella forma riflette la “giusta” configurazione di questa nuova contingenza emotiva: gli sguardi con Marta carichi di dolcezza, gli insegnamenti impartiti a Rafo, la cura per gli animali con innocue carezze, infine il ballo come unica forma di movimento possibile per trovare pace oltre lo show-rodeo-cinema della vita. È questa la verità di Mike Milo ed è questa la verità di un regista che, dopo quasi settant’anni di carriera, insegue solo l’essenza del filmare.

Mike Milo compie la sua missione. Riporta Rafo al confine dove lo attende il padre Howard. E in quest’ennesima riscrittura simbolica del finale di Sentieri Selvaggi l’uomo di frontiera resta nuovamente al di qua, ma non si perde più nella polvere e nel vento. L’utopia di pace e redenzione della “casa di Marta” configura quella possibile new home cantata all’inizio da Will Banister. Certo, Cry Macho non sarà miglior film di Clint Eastwood, forse non ha la tensione etica di Gran Torino e nemmeno lo struggimento paterno di The Mule, ma in quel sublime raggio di luce che avvolge il tormentato protagonista riesce a trovare una sua lucida e commovente urgenza.

 

Titolo originale: Cry Macho
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola, Horacio Garcia-Rojas
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 104′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
2.98 (47 voti)
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