Eileen, di William Oldroyd

Storia, personaggi, colori da neo-noir per un film che non lo diventa mai. Accarezza la morbosità ma s’accontenta di raccontare il dramma di una mente spezzata dall’ordinarietà. Grand Public

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Eponimo, come Gilda; saffico, come Passion e bagnato nei colori del neo-noir, come Chinatown. E, per soprammercato, con un personaggio che si chiama Rebecca, finto-bionda come una delle tante che hanno animato il cinema del migliore di tutti, Sir Alfred Hitchcock.

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Sin dalle premesse si può intuire come non abbia paura di nulla William Oldroyd con questo Eileen: nè di scottarsi come uno dei tanti Icaro autoriali che passano troppo vicini al sole (della Florida come in Brivido caldo, altro titolo nato per riscrivere le coordinate del noir nel decennio in apparenza più lontano dalle sue tematiche) nè di fare del genere un mezzo per continuare a ragionare di donne che possono trovare il proprio posto nel mondo solo liberandosi dal fardello del maschio che le condanne al grigiume.

Siamo negli anni Sessanta ed Eileen (Thomasin McKenzie) è una timida e fin troppo comune ragazza di 24 anni che lavora nella prigione di Boston in una posizione subalterna perfino alle due arpie segretarie. Vive in casa col padre, ex-poliziotto alcolista e con tendenze maniacali, che la vessa con entrambe le forme di violenza di cui si può essere vittima: una fisica, che si manifesta con aggressioni verbali continue, ed una psicologica che fa leva sul rapporto parentale e la sicurezza della grande casa familiare. Un giorno arriva però Rebecca (Anne Hathaway), nuova psicologa dell’istituto carcerario che farà esplodere le latenti tensioni sessuali della protagonista e la coinvolgerà in un’esperienza drammatica che rischia di far crollare definitivamente il fragilissimo equilibrio della giovane.

Eileen si rivela uno dei film recenti con la più lunga sequela di occasioni mancate che a memoria ricordiamo. La prima scena in cui la protagonista si getta una palla di neve dentro le mutande per spegnere i “fuochi dei suoi lombi”, che tra l’altro si procura voyeuristicamente andando a spiare con l’auto le coppie appartate, annuncia un torbido erotismo che alla fine dei conti si risolve però soltanto in un castissimo bacio lesbo. Più bravo a creare suspence che a dare sfogo alla tensione creata, Oldroyd immerge vicenda e personaggi in una nebbia fattuale che sconta il difetto di essere non particolarmente densa e schiava di un plot-twist sicuramente inaspettato ma composto di una materia pirocinetica un po’ fine a stessa. Così i sogni sessuali ed escapisti (lo stupro desiderato da parte del secondino, il colpo di pistola in testa al padre) di Eileen sono manifestazioni fin troppo visibili dell’inconscio di una protagonista dalla mente evidentemente spezzata dall’ordinarietà di provincia e che avrebbe meritato un thriller, legge del contrappasso, meno freudiano e più partecipe della sua insalubrità psicologica.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
3 (2 voti)
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