France, di Bruno Dumont

Un film sulla perdita di controllo che è invece controllatissimo, che finge complicità con Léa Seydoux e invece non le toglie mai le luci di dosso. Qual è davvero il cinema del regista francese?

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France guarda in macchina. Il corpo di Léa Seydoux è come quello della propria nazione (del titolo) che si deve mostrare a 360° e dove compare anche il vero Presidente della Repubblica Emmanuelle Macron. C’è sempre una distanza, anzi una differente altezza con cui la protagonista guarda il mondo che le sta intorno, anzi che fa ruotare attorno a lei. Si vede nel modo in cui guarda la telecamera nel suo studio televisivo, in una casa che somiglia a un museo e dove gli spazi ampi somigliano a quelli di un film in costume. Dumont associa il titolo del film con la sua protagonista. Non è la prima volta che succede. Era già accaduto in Camille Claudel, 1915 e nello strepitoso dittico Jeannette/Jeanne, figure che possono rappresentare la reincarnazione cinematografica di France nel presente. Anche il suo è un percorso religioso. Di risvegli, di drammi, di cadute nel vuoto.

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France de Meurs è una giornalista televisiva molto famosa. Si divie tra lo studio televisivo, un servizio in guerra e la sua turbolenta vita in famiglia. Un giorno, dopo un incidente autostradale in cui nel traffico ha casualmente tamponato uno scooter, perde tutte le sue certezze e rimette in discussione la propria esistenza.

Sono sempre gli occhi gli elementi rivelatori del cinema di Bruno Dumont. Dalla giovane Giovanna d’Arco a Juliette Binoche passando per Barbe di Flandres, Domino di L’umanità e Katia di Twentynine Palms. Léa Seydow cerca con lo sguardo la macchina da presa, moltiplica la sua immagine social. Pubblico e privato sono la stessa cosa. Eroina della sua stessa vita, protagonista di quello che potrebbe essere un fotoromanzo, manipola e viene manipolata nel momento in cui perde le proprie certezze e si trova davanti un giornalista che si spaccia per qualcun’altro.

C’è prima il meglio e poi il peggio del cinema di Dumont nel momento in cui prima esalta poi inghiotte France in un circo mediatico, in cui il tentativo di annullamento della propria immagine (che è proprio uno dei motivi di seduzione del cinema del regista francese) lascia emergere tutte le sue fragilità. Piange in tv, per strada, fa fatica a sostenere uno scontro dialettico con un politico, s’innamora e poi sputa in faccia tutto il suo disprezzo. Un cinema sulla perdita di controllo che però invece è controllatissimo, anche nell’improvviso rumore del bombardamento dopo il quale abbraccia l’interprete dove l’esibizione della recitazione lascia emergere il trionfo dell’apparenza, della falsità. “Non sopporto più gli sguardi della gente” dice a un certo punto France. Dumont però non le toglie mai le luci di dosso e neanche l’esposizione mediatica. Carica il suo film così al limite che deve usare lo stratagemma di un messaggio guardato di nascosto su uno smartphone. Lei è al’altro sguardo di Dumont che rappresenta le due facce contrastanti del suo cinema, sublime e mostruoso insieme.

Chi è veramente France? E qual è davvero il cinema di Dumont? Quello delle poesie rock di Jeanne/Jeannette – France è anche un canto isolato nel tumulto dell’esistenza moderna – o dell’esibizione delle imperfezioni (fisiche/mentali) dove la mdp diventa l’oggettiva e rigida lente d’ingrandimento di L’età inquieta? Proprio frammenti di quel film, come ciò che resta di un’esplosione, arrivano nella scena in cui la protagonista va a trovare i genitori del ragazzo con cui ha avuto l’incidente. C’è compassione e pena prima che la necessità di aiutarli. È ancora questioni di occhi. Quelli di Bruno Dumont e Léa Seydoux in quel momento coincidono. In molti momenti vanno di pari passo, poi si scindono, proprio nel momento in cui al cineasta francese cerca il percorso complesso di una santificazione social. La famiglia (marito, figlio), è il vuoto, il buco nero. Nella difficoltà di mostrare la fine di una storia, Dumont preferisce annullarla. Un cinema ipertrofico, una critica all’esposizione mediatica da cui però France si fa fagocitare. La perdita di controllo è così studiata da diventare respingente, al limite della caricatura nel momento in cui ogni incontro, ogni situazione si rivela un fallimento o sfocia nella tragedia. Da una panchina la protagonista alza lo sguardo verso la macchina da presa. È un incrocio decisivo. Da lì poteva partire un film che ci poteva fare uscire di testa. È accaduto invece il contrario. La recente riabilitazione e poi innamoramento verso il cinema di Dumont ha avuto con France una brutta battuta d’arresto. Questione di sguardi. Un altro lo avrebbe portato verso le vette altissime e lontanissime. Alla fine, tutto comincia sempre dagli occhi.

 

Titolo originale: id.
Regia: Bruno Dumont
Interpreti: Léa Seydoux, Juliane Köhler, Benjamin Biolay, Blanche Gardin, Emanuele Arioli, Marco Bettini, Jawad Zemmar, Gaetan Amiel
Distribuzione: Academy Two
Durata: 133′
Origine: Francia, Germania, Italia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.25 (52 voti)
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