“I mostri mi hanno aiutato” – Incontro con Tim Burton a Torino
Ospite del Museo Nazionale del Cinema, dove ha inaugurato la mostra The World of Tim Burton, il regista ha raccontato tutto ciò che in quarant’anni di carriera ha ispirato le sue pellicole
“Da bambino i mostri non mi spaventavano, anzi mi hanno aiutato a sentirmi meno solo perché rappresentavano la diversità di tutti coloro che non rispondevano ai canoni socialmente accettati”. Così Tim Burton sintetizza la sua poetica durante la Masterclass tenuta mercoledì 11 ottobre presso la sala Cabiria del cinema Massimo, ospite del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il giorno precedente aveva inaugurato la mostra The World of Tim Burton nella Sala del Tempio della Mole Antonelliana e ricevuto il Premio Stella della Mole, riconoscimento che l’ente ha già consegnato con cerimonia pubblica a nomi del calibro di Kevin Spacey, Pablo Larraín e Asghar Farhadi, per citarne solo alcuni recenti. Nell’oretta di incontro, moderato dalla critica Piera Detassis, il regista statunitense si è lasciato andare ad aneddoti e riflessioni su disegno, Bava e Fellini, famiglie disfunzionali e in generale tutto ciò che in quarant’anni di carriera ha ispirato le sue pellicole.
Si parte con uno sguardo ai giovanissimi (numerosi in sala) spettatori di Mercoledì, serie di cui l’autore sta sviluppando proprio in questo momento una seconda attesissima stagione. “Quella ragazza non l’ho inventata io ma mi ci identifico perfettamente e per potermi dedicare a un progetto devo identificarmi sempre io per primo in almeno un personaggio“. La speranza è che il racconto della sua affermazione identitaria possa aiutare ragazzi che oggi non sanno come esprimere ciò che hanno dentro, perché sappiano che non sono soli. “Per me è stato fondamentale il disegno, mi permetteva di comunicare con il mondo“. E a differenza della maggior parte delle persone, che con l’età adulta rinunciano alla creatività perché convinti di non avere talento, Burton ha superato indenne quella fase e non ha mai smesso. Ne è testimonianza l’incredibile repertorio di bozzetti esposti nella suddetta mostra, dedicati a personaggi e situazioni che hanno successivamente trovato spazio nei suoi film ma anche a elementi che sono rimasti sulla carta, rivelandosi sorprese.
A questo proposito, citiamo gli schizzi preparatori di Taron e la pentola magica, che in seguito verrà realizzato senza il suo contributo. “La mia esperienza con Disney è stata positiva e negativa allo stesso tempo“. Il giovane Tim ha infatti cominciato disegnando in quegli studi ma si è presto reso conto di essere fuori posto. “Secondo i loro standard non sapevo disegnare e comunque bisognava produrre con una operatività da catena di montaggio che non mi appartiene, mentre per me il processo creativo è sempre stato intimo e preferisco attuarlo nell’isolamento della mia stanza“. Quindi una riflessione sul cinema come caos controllato perché “se vuoi avere il controllo su tutto fai il pittore, mentre appunto realizzare un film significa essere consapevoli che ci saranno imprevisti e non tutto verrà come te lo sei immaginato nella testa“. In questo senso, per Burton ogni film è una scoperta. “Mi capita di guardare i miei lavori come se fossero di qualcun altro…“.
Ma è sorprendente anche come certi temi o personaggi si presentino alla sua porta per essere raccontati. “Non sono mai stato un lettore di fumetti perché non avevano per me un impatto visivo“. Batman però è diverso, rappresentava qualcosa che Burton aveva sempre sentito e gli ricordava il fantasma dell’Opera, che agisce nell’ombra e custodisce un segreto. “Mi sono molto divertito anche con il personaggio di Joker, ma è Catwoman ad aver fatto davvero la differenza: Michelle Pfeiffer è una performer coraggiosa, senza la quale non avremmo mai ottenuto quel risultato“. In generale il regista sente vicine quelle figure che normalmente vengono messe ai margini, come i tormentati protagonisti interpretati in certi vecchi film da Vincent Price. “Da ragazzino gli scrissi una lettera a cui allegai un libricino illustrato e quell’attore che adoravo mi rispose… sono stato fortunato“.
Ebbe tutto inizio da quell’improbabile scambio. In seguito furono le (altrettanto impensabili) proiezioni di horror italiani a Burbank, comune della contea di Los Angeles dove Burton è cresciuto. “Non so perché li proiettassero ma in questo modo vidi i film di Mario Bava prima ancora di sapere chi fosse, così come rimasi folgorato da Toby Dammit di Federico Fellini“. Ma quella zona della California è nota anche per aver ospitato i set di molti prodotti fantascientifici degli anni cinquanta. “Amavo quei film, per me erano molto reali, ed è il motivo per cui ho provato tutti i mezzi digitali che ho potuto ma continuo ad apprezzare di più gli effetti artigianali“. Ad esempio, Big Fish è un mix di grafica computerizzata e soluzioni analogiche, come la celebre scena il cui il protagonista vede per la prima volta l’amore della sua vita: “Quel film è unico, lo feci subito dopo che mio padre morì, e se da una parte volevo poter fermare il tempo con i trucchi del cinema, dall’altra sentivo il bisogno che i pop corn sospesi fossero veri, che li si potesse toccare“. Poi sottolinea di aver voluto a tutti i costi Nightmare Before Christmas in stop motion, ma anche che non rifarebbe mai Alice in Wonderland perché fino alla fine non sapeva cosa ne sarebbe uscito.
A ricorrere spesso nell’opera burtoniana sono anche le famiglie, perlopiù disfunzionali. “Non so cosa significhi normale, tutte le famiglie hanno problemi, ma credo sia questo il bello della vita“. La solitudine è solamente una conseguenza di come ci si pone di fronte alle sfide della socialità. “Edward mani di forbice è il film più personale e difficile che ho fatto perché rappresentava esattamente ciò che avevo provato fino a quel momento, il timore di non essere compreso, e all’epoca non era di moda come oggi parlare di diversità…“. La seconda stagione di Mercoledì unirà questi due elementi, quindi, valorizzando ancora di più la forza di Jenna Ortega – “Così perfetta in quella parte che bucò lo schermo di Zoom nei provini a distanza durante la pandemia” – ma senza perdere l’occasione di approfondire gli altri personaggi e sapere cosa succederà a quella famiglia: “È la stessa curosità che mi spinge, 35 anni dopo, a fare un sequel di Beetlejuice!“.