Il cielo sopra Berlino, di Wim Wenders
Un purissimo atto d’amore verso il Cinema e verso l’uomo. Miglior regia al Festival di Cannes. In sala da oggi in versione restaurata.
La leggera invisibilità dell’angelo. La necessaria pesantezza dell’uomo. Tutto Il cielo sopra Berlino vive di questa dicotomia apparentemente non ricomponibile. Wim Wenders cerca un punto di vista fuori dall’umano per fare parlare i luoghi, dare una voce alle strade, alle piazze, ai muri, alle chiese, ai cieli capovolti. Non interessa narrare una storia, interessa dare forma alla Storia attraverso l’Immagine-Tempo: Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander) sono i due angeli protagonisti che, pur discutendo di etereo, aspirano alla carnalità dell’umano. Marion (Solveig Dommartin, ex compagna del regista) è l’acrobata da circo che si destreggia senza rete per resistere alla malattia del tempo; l’angelo Damiel osservandone le evoluzioni se ne innamora e diventa uomo. L’esile trama è il pretesto per intrecciare il bianco e nero del noumeno con il colore del fenomeno: gli angeli vedono l’essenza delle cose e la fotografia di Henri Alekan (mago delle luci di René Clément, Jean Cocteau e Marcel Carné) compie il miracolo di dare la voce ad ogni singolo riflesso di luce, ad ogni ombra proiettata sul muro.
Aiutato dai dialoghi e monologhi scritti da Peter Handke, Wenders riesce a mantenersi in equilibrio su un tono metafisico che non scade mai nel retorico e, sulle “ali del desiderio” (Wings of Desire, titolo americano del film) volteggia con riprese aeree tra la dea della Vittoria e la vecchia chiesa bombardata di Kaiser Wilhelm, tra una deserta Postdamer Platz e la Biblioteca Centrale dove vorticano migliaia di pensieri, poesie (Rilke) e musiche: l’effetto finale è di un coro sacro nel tempio della cultura. Questi luoghi non dimenticano la grande tragedia della Berlino rasa al suolo alla fine della seconda guerra mondiale: le immagini di repertorio girate dagli americani dopo il loro ingresso nella capitale ne sono un doloroso memento. Rimane un muro a separare l’est dall’ovest, una linea invalicabile che testimonia uno stato di pace apparente.
Wenders trova la giusta misura tra la necessità di fare parlare i luoghi (Falso movimento, Lo stato delle cose, Paris, Texas) e la scelta di un punto di vista non sempre aderente alla realtà oggettiva e spesso strabordante nella sottolineatura enfatica (i suoi ultimi documentari Pina e Il sale della terra sono un altro esempio di questo perfetto equilibrio). Il cielo sopra Berlino diventa così anche documento fotografico prima della fine del mondo: il muro nel 1989 crollerà travolto dalla Glasnost e quegli spazi semideserti vedranno sorgere il centro Sony.
Lo sguardo del regista tedesco è colmo di partecipazione per ogni singolo essere vivente: il mondo sognato dai bambini (gli unici che possono vedere gli angeli, gli unici a guardare ancora verso il cielo) in contrapposizione alla memoria storica di una Berlino coperta di macerie e cadaveri, testimone di una identità violata. La divisione del muro come linea di lacerazione tra il desiderio e la realtà contingente; il tentativo di valicarla, bloccando il tempo in una istantanea fotografica, dà un senso alla vita: l’angelo Bruno Ganz ha bisogno di umanizzarsi per sentire, per gioire, per amare, per soffrire. Le immagini del Circo dopo lo spettacolo sono un omaggio a Chaplin; la stessa malinconia riempe di lacrime gli occhi di Marion che volteggia come un angelo ma si ritrova sola con sé stessa davanti allo specchio. L’amore è anche una prova di stabilità da funanboli. L’amore è questo sorreggersi a vicenda, tenendo ben ferma la corda degli equilibrismi. E Damiel aiutato da un altro ex angelo illustre (Peter Falk nel ruolo di sé stesso) riporterà il colore nella vita della giovane acrobata. Berlino diventa luogo simbolo della contraddizione dell’uomo moderno, come fulcro centrale di un male di vivere che è dominato dai granelli di clessidra del tempo. Il rock di Nick Cave and The Bad Seeds scuote nel profondo le anime condannate all’imperfezione. Necessitiamo di un Grande Narratore, un Omero (il poeta anziano interpretato da Curt Bois) che aiuti a conservare la memoria storica, per non commettere gli errori del passato. Abbiamo bisogno dell’amore per i personaggi di Ozu, della delicatezza del linguaggio di Truffaut, dello sguardo metafisico che scolpisce il tempo di Tarkovskij: a questi registi Wenders dedica il suo film.
Miglior regia al Festival di Cannes 1987, Il cielo sopra Berlino è un purissimo atto d’amore verso il Cinema e verso l’uomo: ci ricorda fotogramma dopo fotogramma che una opera cinematografica è ancora in grado di rendere visibile il pensiero nella sua forma più essenziale, come memoria e coesistenza fra passato e presente.
“Io adesso so cose che nessun angelo sa: lo stupore del bambino ha fatto di me un uomo”.
Premio per la miglior regia al 40° Festival di Cannes
Titolo originale: Der Himmel über Berlin
Regia: Wim Wenders
Interpreti: Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Otto Sander, Curt Bois, Peter Falk, Bernard Eisenschitz
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 130′
Origine: Germania Ovest/Francia 1987