Il metodo Kominsky: la nuova comicità over 70

La sitcom Netflix ideata da Chuck Lorre racconta la vita quotidiana di due ultrasettantenni, tra dolori, difficoltà e nuove sfide. Michael Douglas e Alan Arkin rappresentano con ironia la terza età

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Due stagioni, sedici episodi, due protagonisti e una miriade di situazioni che affondano le proprie radici nel quotidiano, per ramificarsi in una serie di gag comiche e riflessioni profonde. Con le sue puntate brevi (di soli 30 minuti ciascuna, in media), il continuum narrativo che riprende ogni volta la storia dal punto in cui l’avevamo lasciata, le chiusure incisive e i “prologhi” introduttivi all’argomento trattato in ciascun episodio, questa serie originale Netflix, creata da Chuck Lorre (Dharma & Greg, Due uomini e mezzo, The Big Bang Theory) nel 2018, rappresenta il tipico prodotto moderno caratterizzato dalla rapidità e destinato allo streaming, pensato per una visione “tutta d’un fiato”.

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Il metodo Kominsky racconta con un ritmo scoppiettante e con una sincerità disarmante la vita di tutti i giorni di Sandy Kominsky e Norman Newlander, due amici ultrasettantenni, diversi come il giorno e la notte, ma accomunati dagli acciacchi e dalla disillusione dell’età. I due affrontano delle sfide non semplici: il burbero e schietto Norman (Alan Arkin, Premio Oscar per Little Miss Sunshine – 2006, Jonathan Dayton e Valerie Faris), ricco agente dello spettacolo, si ritrova a fare i conti con gli istinti suicidi, dovuti alla morte dell’adorata moglie Eileen (Susan Sullivan), malata di cancro, e al rapporto disastroso con la figlia drogata Phoebe (Lisa Edelstein); lo scapestrato attore Sandy (Michael Douglas, Premio Oscar e Golden Globe per Wall Street – 1987, Oliver Stone) si divide tra il lavoro come insegnante di recitazione presso la sua scuola a Hollywood, la figlia Mindy (Sarah Baker), fidanzata con un uomo che ha il doppio dei suoi anni, la studentessa Lisa (Nancy Travis), sua ultima amica-amante dopo ben tre matrimoni fallimentari, i problemi alla prostata che non gli danno tregua. 

In questo quadro generale – che tanto ricorda la sitcom “gemella” Grace e Frankie con Jane Fonda e Lily Tomlin, ormai giunta alla sesta stagione su Netflix, che tra disincanto e ironia mostra gioie e dolori della terza età – vengono sviluppate le tematiche principali, delineate sin dall’inizio: l’arte della recitazione, insegnata secondo i dettami del così detto “Metodo Kominsky”, e la potenza dell’amicizia vera, con i propri pregi e difetti, al di là delle inevitabili difficoltà. 

Teatro naturale della prima è lo studio in cui insegna Sandy, un’aula con un palcoscenico sul quale l’insegnante si esibisce davanti alla classe in un monologo (durante la primissima scena del primo episodio), tra il velluto rosso delle tende, il buio del retroscena e i riflettori abbaglianti puntati in faccia: «Prima di iniziare la lezione di stasera, vorrei soffermarmi un momento a parlare della nostra arte: la recitazione. Che cos’è?». Potrebbe apparire semplicemente come una finzione che sembra reale. Ma a livello più profondo «è l’attore che interpreta Dio. Perché dopo tutto che cosa fa Dio? Dio crea. Dio dice ecco la vita e, boom, nasce la vita! Come Dio dobbiamo amare le nostre creazioni, dobbiamo riempirle di vita, di carattere, di speranza, di sogni e di errori fatali. E poi, dobbiamo lasciarli andare. Perché alla fine il vero amore, l’amore di Dio, è lasciare andare».

E il segreto del suo metodo, in fondo, è quello di sentire a pieno l’esistenza, sperimentare ogni sensazione nella sua interezza, per restituirne davanti al pubblico ogni sfumatura in maniera credibile e sincera. «Noi mettiamo in scena la verità, interpretiamo la realtà di quel momento, senza forzare la mano». Uno scavo interiore nei sentimenti partendo dalla vita reale, di cui la recitazione deve essere un’estensione, senza escludere nemmeno i momenti tristi: «É doloroso essere umani, fa male da morire. E potete esplorare il mondo quanto volete, ma quel dolore non se ne andrà. Perché essere umani ed essere feriti sono la stessa maledetta cosa». 

Per riuscire ad andare avanti è inutile sperare nell’immortalità miracolosa, come fantastica Norman davanti alle immagini di Cocoon – L’energia dell’universo (1985, Ron Howard) in tv; gli unici veri appigli che possano rendere la vita sopportabile sono le relazioni con gli altri, in particolar modo le amicizie.

Quella di lunga data tra Sandy e Norman si sviluppa in alcune location ricorrenti: dall’abituale punto di ritrovo, il ristorante “Musso & Frank Grill” (dove Alex, il vecchio cameriere, porta lentamente a Sandy ogni volta «il suo solito crimine contro l’umanità», ovvero Jack Daniels con una diet Dr Pepper), agli interni delle automobili dei protagonisti, sfondo di molte discussioni e riflessioni. L’inquadratura frontale sui sedili anteriori, con i due che parlano e spesso si battibeccano, ritorna spesso: quando lasciano Phoebe nell’ennesimo centro di disintossicazione (St. 1, ep. 6), Norman rivela i suoi pensieri suicidi all’amico, considerando ormai la propria esistenza «oggettivamente inutile» e cita l’epico finale di Thelma e Louise (1991, Ridley Scott), facendo preoccupare non poco Sandy (rimane il tono sarcastico anche nel modo anticonvenzionale in cui dichiara infine di voler morire: «Mi riempirei le tasche di salmone e andrei nel bosco in cerca di un orso affamato»); durante l’ennesimo tragitto in auto avviene lo scambio di battute che apre la seconda stagione (St. 2, ep 1), con Norman che dichiara «Sto cercando un modo per esprimere la mia disperazione esistenziale», Sandy che risponde «Senza offesa, ma mi sembra che ci riesci già bene» e l’amico che ribatte «Posso fare di meglio».

L’automobile rappresenta dunque il luogo di condivisione, di apertura e di avvicinamento per eccellenza, il filo conduttore che lega tra loro gli episodi e le stagioni della serie. Tra confidenze e ironiche prese in giro, il perpetuo movimento del mezzo sembra incarnare quello inarrestabile della vita, che continua ad andare avanti anche di fronte a difficoltà e lutti, rendendo possibile – anzi, naturale – l’evoluzione dell’amicizia: i legami, come la vettura in questione, sono il motore della storia e per esteso – con una metafora piuttosto evidente – dell’esistenza. Il metodo Kominsky cerca di trasmettere proprio questo: al di là dell’arguzia e dell’ironia onnipresenti, è una serie dolcemente e satiricamente malinconica.

I punti forti per la buona riuscita di un prodotto originale e di successo come questo, sono la scoppiettante (e mai banale) sceneggiatura dello stesso Lorre e la recitazione di un cast affiatato, capitanato da due leggende del cinema. Non per caso la sitcom ha ricevuto due Golden Globe nel 2019 (alla Miglior serie commedia o musicale e al Miglior attore a Douglas). Anche tramite un escamotage intelligente, l’apparizione di alcune guest star note, l’attenzione dello spettatore viene ogni volta rivitalizzata: così Kathleen Turner (nei panni dell’ex moglie Ruth) si riunisce nella seconda stagione al collega Douglas, con cui recitava in All’inseguimento della pietra verde (1984, Robert Zemeckis) e ne La guerra dei Roses (1989, Danny DeVito); Allison Janney (Premio Oscar per Tonya, 2017, di Craig Gillespie) difende il metodo imitativo in un cameo divertente, scontrandosi aspramente con la lezione immedesimativa di Kominsky; l’urologo infernale interpretato da Danny DeVito infierisce con irresistibile umorismo sul povero protagonista («La varietà mi ha spinto a fare l’urologo: i peni sono come fiocchi di neve, non ce ne sono mai due uguali»). Gli attori del cast riescono a dipingere e caratterizzare dei personaggi ben scritti, ai quali il pubblico può facilmente affezionarsi: all’eterno Don Giovanni – messo a dura prova dalla vecchiaia – Sandy, che rifiuta di accettare la propria età anagrafica, fa da controparte la comicità pungente del caustico, antitecnologico e – nel profondo – tenero Norman. I due «passeggeri su una barca che lentamente affonda», riescono tutto sommato a rimanere a galla e, nel frattempo, ci fanno ridere di cuore delle loro disgrazie. Senza mai essere volgari (tra i numerosi sketch, Sandy ammette: «Quando rido troppo forte, scorreggio un pochino»). E non risparmiano neanche momenti seri, di dolore e di tenerezza, come quando Norman, in ospedale al capezzale della moglie malata, viene portato via da Sandy o durante il suo discorso commemorativo al funerale (eccentrico e insolito pure quello, con l’esibizione di Patti LaBelle e di una drag queen nei panni di Barbra Streisand); e ancora, quando in lavanderia, al ritiro di un abito da sera femminile dimenticato, affiora il ricordo vivido di Eileen, che continua a stargli accanto in versione di saggio fantasma. Nella seconda stagione Norman riscopre l’amore grazie alla sua amante giovanile Madelyn (Jane Seymour) e si abbandona inaspettatamente a dolci momenti per alleviare le sofferenze. Non mancano gli abbracci tra i due amici, che si sostengono nelle difficoltà – come quando Sandy scopre di essere malato (St. 2, ep 2).

Come dichiarato nella sceneggiatura, per bocca di Norman, Il metodo Kominsky sa perfettamente «come rendere eccitante una routine»: si sviluppa infatti su alcune situazioni ricorrenti, inframmezzandole con complicazioni e colpi di scena vari, riuscendo ad apparire credibile e accattivante grazie alla caratterizzazione decisa e ben riconoscibile dei personaggi, alla scrittura arguta e all’ottima prova attoriale. Tanto che, alla fine, non hanno più importanza le domande esistenziali che si pone Norman «Chi sono? Perché sono qui?», poiché in fondo «magari la vita non ha senso e possiamo soltanto essere persone gentili». O forse, superate le cinque fasi del dolore, della negazione, della rabbia, della contrattazione e della depressione, giunti a quella dell’accettazione, si torna a sperare nel futuro, ci si aggrappa agli amici aspettando insieme tutto ciò che deve ancora arrivare. La serenità, Tom Cruise, Godot oppure semplicemente la terza stagione della serie.

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