Il (nostro) viaggio. Ricordo di Edoardo Bruno

Un rapporto durato più di 25 anni, iniziato nel 1994. Edoardo Bruno, scomparso mercoledì scorso a Roma a 92 anni, ha lasciato una ricchissima eredità. Di sguardi, visioni, interpretazioni critiche.

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Ho aspettato qualche giorno prima di scrivere di Edoardo Bruno, morto mercoledì scorso proprio cinque giorni dopo aver compiuto 92 anni. Ho aspettato perché non era facile fare un viaggio in una marea di ricordi, di momenti condivisi, di totale complicità o di aperto conflitto dialettico.

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Da una parte c’è la persona che ha incarnato una consistente parte della storia della critica italiana. Ha fondato “Filmcritica” nel 1950 poco più che ventenne assieme a Roberto Rossellini, Umberto Barbaro, Galvano Della Volpe e a uno dei critici più illuminati di sempre, Giuseppe Turroni, che ci ha lasciato troppo presto. E l’ha guidata fino all’ultimo numero, il 700. Ha scritto numerosi saggi; tra i più importanti ci sono Film altro reale (1978), Film come esperienza (1986) e uno dei miei preferiti, Pranzo alle otto (1994) sulla commedia sofisticata hollywoodiana. Ha insegnato nelle università di Palermo, Salerno, Roma e Firenze. Ha creato il Premio Barbaro per il miglior libro di cinema e il Premio Campidoglio Maestri del cinema che è stato assegnato ad alcuni dei più importanti cineasti di sempre che hanno segnato anche la ‘politica’ di “Filmcritica” come Billy Wilder, Alfred Hitchcock, Elia Kazan, Clint Eastwood, Vincente Minnelli, Martin Scorsese, Roman Polanski, Jean-Luc Godard, Blake Edwards, Stanley Donen, John Boorman, Manoel de Oliveira e Raúl Ruiz. Aveva poi organizzato un evento con Paul Schrader a Roma e la proiezione di Forever Mine al Teatro Argentina. Ha curato per la Mostra del Cinema di Venezia le retrospettive su René Clair, Luis Buñuel, Jean Cocteau. E, nel 1969 ha diretto il suo unico film forse il  più ‘godardiano’ di tutto il cinema italiano, La sua giornata di gloria.

Un pezzo consistente di storia del cinema è passato attraverso il suo sguardo e ce l’ha restituito in modo rivoluzionario, rifiutando schemi consolidati. Ad un film ci si poteva avvicinare attraverso una lettura privata, dove il film  poteva incrociarsi con la nostra storia più intima. Spesso si partiva anche attraverso una scena, o meglio, un frammento, un dettaglio, anche solo un’ombra. E spronava, rimetteva tutto in discussione, contagiava con i suoi amori, si infervorava per spingerci a trovare il ‘segno significante’ del film o guardarlo anche e soprattutto come atto politico.

Il nostro primo incontro è avvenuto nel 1994. Ed è stato un disastro. Delle riviste di cinema leggevo prevalentemente “Ciak” e quando ho fatto la tesi su Jacques Tati ho citato degli illuminanti articoli di “Filmcritica” su di lui. Ma ancora non avevo visto una grande differenza con le altre riviste. Così gli ho portato a mano il mio curriculum nella sede storica romana di Piazza del Grillo e gli avevo proposto un articolo sui film di Robin Williams. Da quel momento il suo interesse per la nostra conversazione era finito lì. Mi ha risposto che non era il tipo di analisi che lo interessava e mi ha liquidato gentilmente e frettolosamente. Ci siamo ritrovati due anni dopo in fila alla Sala Grande del Festival di Venezia alla coda per I magi randagi di Sergio Citti. Abbiamo parlato dei film visti e prima di entrare in sala mi ha detto: “Mandami qualcosa”. Intanto avevo cominciato a comprare “Filmcritica” quasi tutti i mesi. E ci ho messo un po’ a capire che è stata una rivista unica. Avevo finalmente compreso quanto la linea editoriale fosse decisiva. Se, per esempio, su “Il Manifesto” non si parlerà mai bene di Salvini e su “Libero” del Governo Conte, su “Filmcritica” certi film e certi autori erano out. I film da stroncare venivano ignorati. Non se ne parlava. Ma ovviamente avevo qualche devianza. Come per Paul Thomas Anderson. Dopo che gli ho detto che avevo amato Magnolia, lui divertito mi ha detto: “Alla prossima riunione ti facciamo il processo”.

Se a Edoardo un articolo non piaceva, non lo pubblicava. Però si leggeva tutto. Ti spronava, te lo faceva riscrivere. A me ripeteva: “Ti devi lasciare andare”. Così dopo che per due volte era stata respinta una mia recensione su Scream di Wes Craven, una sera avevo deciso di passare all’attacco. Mi sono messo al pc mentre mi stavo scolando una mezza bottiglia di whisky. Ci ho messo poi più tempo a fare il controllo ortografico che a scrivere il pezzo. Alla fine ho mandato l’articolo ed Edoardo mi ha detto: “Finalmente, ci siamo”. Tra parentesi, poi, non è mai stato pubblicato. Il mio primo pezzo su “Filmcritica” è stato un percorso sul cinema di Tim Burton. Ma l’ingresso ufficiale l’ho fatto, forse segno del destino, con Rossellini. Davano La paura in tv, a Fuori Orario. E da lì è partita la mia avventura e un rapporto lungo più di 20 anni.

Questa è una storia piena di aneddoti, di storie, di un percorso di vita insieme e anche di qualche litigata. Nel momento in cui si entrava a far parte di “Filmcritica”, c’era l’ingresso in una grande famiglia. Edoardo dava tutto se stesso, ma pretendeva altrettando in cambio. Voleva l’esclusiva. Se scrivevi per “Filmcritica”, non potevi farlo da nessuna altra parte. E sotto questo aspetto ci scontravamo spesso. Ogni articolo da un’altra parte, era come un tradimento.Con “Sentieri Selvaggi” aveva fatto una parziale eccezione. Quando gli avevo detto, nel 1998, che sarebbe uscita la rivista su carta, aveva storto il naso. Poi però, in modo più o meno diretto, ci è sempre stato vicino. E aveva anche partecipato al numero 2 con un pezzo intitolato “Rosso profondo”. E alla fine dell’articolo aveva comunque consigliato una linea: “Una rivista di critica come “Sentieri Selvaggi lasci alla destra la confusione dei contenuti apparenti, confondere popolarità con incassi, Pieraccioni con Cameron, la volgarità con lo Stile, il senso materialista di Clint Eastwood (vedi il gotico Mezzanotte nel giardino del bene e del male) o la grande scoperta del Nero di Ciprì e Maresco (Totò che visse due volte) con il finto pulp di Marco Risi. Non mescoli, nel ‘catalogo’ dei nomi citati, la grandezza di Pasolini con la inutile insensatezza di Grimaldi: in certi campi non sono ammessi i lapsus, le disinvolture, le bassezze estetiche”.

Però, ripeto, dava tutto se stesso. Ti coinvolgeva in tutto. Negli incontri su Godard, nelle numerose interviste collettive (indimenticabili quelle con Boorman e De Oliveira), in un viaggio in macchina con sua moglie Amalia alla guida per andare a Fiumicino da Sergio Citti che ci aveva invitato a cena in un ristorante del porto a mangiare la pasta con le telline.

Edoardo interagiva con i film. Anche direttamente. Era rimasto inorridito da Lontano dal Paradiso di Todd Haynes. Pur con qualche perplessità, aveva accolto la mia proposta di un pezzo su Pearl Harbor di Michael Bay. Lo aveva colpito da un dettaglio. Non la storia d’amore, non l’attacco dei giapponesi, ma una porta girevole di un hotel. Dieci secondi di film. Ma l’intuizione decisiva da cui far partire la recensione.

Il film diventava parte della sua esperienza, della sua quotidianità. Durante e dopo la visione. Dopo aver visto insieme La sottile linea rossa di Malick, mi affannavo a cercare una linea critica che potesse corrispondere al mio godimento. Lui aveva allargato le braccia e sembrava che si fosse sollevato da terra. Poi aveva sentenziato: “Si vola!”

Edoardo BrunoAi festival si sedeva spesso nelle file davanti con Amalia. Durante il film si sentiva la sua voce e la sua risata. Una volta, non so come, alla proiezione di Nuovomondo di Crialese, mi sembrava di sentire odore di aglio. Lui stava vicino a me: “Edoardo, non senti puzza di aglio?”. E lui: “Si, infatti, l’aglio”. Poi si era rivolto verso la moglie parlandole di come si faceva la pasta con aglio, olio e peperoncino. il film non gli stava piacendo. Verso la metà se ne era andato via ma mi aveva salutato dicendomi: “Ti lascio alla visione di questo America America. Il ribelle dell’Anatolia“.

Ad ogni Festival c’era puntuale la riunione di “Filmcritica” per decidere il film preferito. Ci si ritrovava solitamente alla terrazza della sala stampa del Palais di Cannes o al Bar Lion di Venezia. Edoardo elencava tutti i film che aveva visto. Lì gli brillavano gli occhi. Aveva l’entusiasmo di un ventenne. E dalle sue descrizioni ogni film sembrava di rivederlo. E quelli che non mi erano piaciuti, in quel momento, nelle sue ‘visioni’, diventavano più belli. Ho sempre invidiato il suo entusiasmo. E tra le tante immagini che porterò nella memoria, ci sarà sempre il modo in cui durante una riunione lui ha preso il quadro con il ritratto di Rossellini e lo ha abbracciato. Ci danzava felice. Proprio come Stanley Donen con la statuetta dell’Oscar alla carriera.

 

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