Silent Night. Il silenzio della vendetta, di John Woo

Dopo sei anni dall’ultimo film, John Woo prova a ripartire. Con un film che assomiglia a un percorso di rieducazione all’action con un incipit folgorante.

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Si parte con il botto. È la vigilia di Natale: un uomo insanguinato si ritrova nel bel mezzo di una sparatoria tra auto che si inseguono per le strade di La Paloma, in Texas, al confine con il Messico. Zona di criminalità spietata e di gang che combattono ferocemente per il controllo del traffico della droga. Non si capisce perché l’uomo sia lì: il suo vistoso maglione con le renne stona con la scena. È il segno evidente che non ha nulla a che fare con quel regolamento dei conti. Il suo obiettivo è un palloncino rosso che vaga per aria. Ma l’uomo è chiaramente sconvolto. Con un ferro colpisce una delle auto coinvolte nella sparatoria e scappa. Finché, dopo un inseguimento al cardiopalma, viene colpito con un proiettile alla gola.

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L’incipit folgorante di Silent Night. Il silenzio della vendetta è una dichiarazione d’intenti. Ritornare all’action, ripiombarci dentro, per intero, ma quasi a caso. Non che John Woo abbia mai tradito i codici (d’onore) del genere. Ma la sua ultima regia risaliva al 2017, ai tempi di Manhunt. E già lì, da parte del maestro di Hong Kong, si avvertiva netta l’esigenza di un riposizionamento nell’industria, ma soprattutto di un ripensamento delle ragioni e delle prospettive del suo cinema. Una sensazione di disagio, come scrivevamo, che sembrava testimoniare una crisi di fede nell’action, della capacità del genere di stare al passo con la trasformazione permanente delle immagini contemporanee. Ed ecco, allora, che dopo sei anni, John Woo prova a ripartire. Dall’estremo confine degli Stati Uniti, già teatro di un passato esilio, sebbene da lì vengano alcune delle sue più mirabolanti prove (Face/Off, Mission: Impossible II). In ogni caso dai margini dell’industria, con un budget limitato e un apparato produttivo di seconda serie, nonostante il supporto della Thunder Road Films, la casa che sta dietro la saga di John Wick. Un ritorno dalla porta posteriore, quindi. Silenzioso quasi quanto il protagonista ferito. Senza troppi clamori, se non il fuoco delle pistole e il rombo dei motori.

In un certo senso, Silent Night potrebbe essere letto come un percorso di rieducazione all’action. Del resto è significativo che il personaggio principale non sia un killer o chissà cos’altro. Ma un pacifico elettricista, un uomo normale, medio, senza alcuna skill come direbbero quelli aggiornati, alcuna abilità speciale. E che perciò tutta la parte centrale del film sia dedicata al silenzioso e faticoso addestramento di Brian, che cerca di acquisire quella destrezza e quel sangue freddo necessari a portare a compimento il suo proposito di vendetta. L’uomo normale non trova niente di meglio che affidarsi ai tutorial e agli strumenti reperibili in rete, per imparare a usare coltelli e pistole o per allenarsi al combattimento corpo a corpo. E ovviamente le sue capacità restano limitate, umane, troppo umane. Non cancellano un senso di inadeguatezza, una certa goffaggine. La determinazione non riesce a placare il cuore che sale in gola, quella sottile sensazione di paura e di disorientamento che rischia di trasformarsi in panico. Ma soprattutto non può diventare cieca spietatezza (come è evidente nel momento in cui Brian deve confrontarsi con l’amante del boss, completamente imbottita di droga).

L’idea di togliere voce al protagonista non solo è dettata da una precisa volontà di ribadire il primato del gesto sulla parola, dell’immagine che disegna tutte le linee di movimento, esteriori o interiori, come conferma uno degli slogan di lancio del film: “action speaks louder than words”. Ma sembra anche rispondere a una necessità di azzeramento, di ritorno a una sorta di grado primario della storia del cinema. Quasi a ripartire dalla purezza aurorale dei tempi del muto. Quando il linguaggio era un’invenzione continua e la sostanza passava interamente per la forma. John Woo piega così i segni della contemporaneità nei codici di una grammatica antica. Le chat di Brian con la moglie assomigliano alle didascalie dei film muti e il rapporto con la tecnologia è un percorso di lento apprendimento. È chiaro che il termine di confronto è, per forza di cose, l’action contemporaneo, di cui proprio John Wick rappresenta la pietra angolare, quella che ridefinisce le coordinate del XXI secolo. Ironia della sorte, a partire anche dall’estetica e dall’immaginario imposto dal cinema di Hong Kong degli scorsi decenni. E da John Woo, in particolare. Il Maestro di un tempo si ritrova costretto a seguire le indicazioni di un’altra lezione. Ma sa di non dover dimostrare nulla. Si concede dei momenti di funambolismo, come il piano sequenza sulle scale che detta il ritmo dell’irruzione di Brian nel covo della gang. Gioca sull’astrazione delle traiettorie e la densità della performance di Joel Kinnaman. Ma il suo intento principale è di normalizzazione e di purificazione. Una lezione di umiltà, se vogliamo. Che però vibra dei toni caldi, incandescenti tipici del suo cinema. Con le impennate mélo, le sottolineature drammatiche, i simboli, le esagerazioni sentimentali e strappalacrime (il tema dell’infanzia spezzata, come già nell’episodio realizzato per All the Invisible Children). Tutto un apparato retorico che, però, si nutre di un’intera tradizione. Ed è la sostanza stessa di una visione del mondo.

Titolo originale: Silent Night
Regia: John Woo
Interpreti: Joel Kinnaman, Catalina Sandino Moreno, Kid Cudi, Harold Torres, Vinny O’Brien, Yoko Hamamura, Anthony Giulietti
Distribuzione: Plaion Pictures
Durata: 104’
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
2.88 (8 voti)
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