Gabriel Montesi, da Pasolini a Dostoevskij

In attesa dell’uscita in sala e su Sky di Dostoevskij, incursione nella serialità dei fratelli D’Innocenzo, approfondiamo il percorso di Gabriel Montesi, portato al successo dal duo e da Matteo Rovere

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In occasione dell’uscita limitata nelle sale cinematografiche italiane di Dostoevskij, il debutto nella serialità dei fratelli D’Innocenzo, prevista per il mese di giugno e a cui seguirà la messa in onda su Sky e Now Tv, approfondiamo l’interesse per uno dei nuovi volti del panorama cinematografico italiano, Gabriel Montesi, che fin dall’inizio della sua carriera si è distinto soprattutto in ruoli legati a marginalità sociale e disagio psichico, tra cinema e televisione.

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Formatosi alla Scuola Volontè di Roma, Montesi comincia il suo percorso interpretativo all’interno dello scenario teatrale italiano – Pinocchio di Carlo Collodi, regia di Raffaele Calabrese (2013) – dal quale si allontana due anni dopo, prendendo parte, dapprima saltuariamente e poi sempre più frequentemente a sitcom di successo, tra le quali Un medico in famiglia, Il restauratore e Provaci ancora prof!, interpretando ruoli minori, destinati a illuminare il volto e il corpo dell’attore, interessanti proprio perché insolitamente fuori canone, conducendo ben presto il giovane interprete di Il primo Re, Favolacce e Io sono l’abisso al successo che molto deve a tre nomi chiave dello scenario cinematografico italiano: Matteo Rovere e Fabio e Damiano D’Innocenzo.

Gabriel Montesi tra disagio e marginalità sociale

Passando per Abel Ferrara (Pasolini), Luciano Ligabue e Marco Bocci, fino a Marco Bellocchio, Paolo Virzì e Donato Carrisi, Montesi sembra volersi focalizzare quasi esclusivamente su personaggi dalla psiche tormentata, o altrimenti frammentata, poiché posti talvolta al centro di scenari di emarginazione – l’Amelio di Favolacce e così l’Uomo che puliva di Io sono l’abisso -, o altrimenti di assoluta solitudine e sotterranea follia.

Ecco dunque che Montesi, nel 2021, dopo film e prodotti televisivi di grande successo, tenta una rapida fuga da quello che ormai appare come “il solito ruolo”, calandosi a fondo nel personaggio a lui più distante, Antonio Cassano, tra dialetto barese e celebri “cassanate”, raccontate in Speravo de morì prima da Luca Ribuoli, senza tuttavia raccogliere l’approvazione da parte dello stesso Cassano, ritrovatosi improvvisamente a doversi confrontare con una versione a suo dire fin troppo caricaturale e ai limiti della credibilità, tanto del suo vissuto, quanto della sua umanità.

L’esperienza della fuga resta un unicum per Montesi, che nei tre anni a seguire torna a immergersi nei panni di uomini profondamente soli, o altrimenti macchiati dall’oscurità della solitudine, della violenza, della fragilità mentale, perciò apparentemente sconnessi dalla realtà. Accade in Siccità di Paolo Virzì e si ripete ancor più ferocemente in Io sono l’abisso di Donato Carrisi, Non credo in niente di Alessandro Marzullo e Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo, mostrando ancora una volta quanto la sua ricerca interpretativa sprigioni interesse e sincerità, illuminando la cupezza di quella sofferenza e quell’isolamento che Matteo Rovere, seguito poi dai D’Innocenzo, hanno saputo individuare ben prima di molti altri autori, nel volto e nel corpo di Montesi.

Una carriera in ascesa, quella di Gabriel Montesi, e dall’atipica ricerca interpretativa che guardando allo scenario cinematografico italiano del momento, non sembra affatto trovare rivali. Non resta che attendere i titoli futuri, nell’attesa, vale la pena osservarne il percorso interpretativo all’interno di Dostoevskij, sempre più prossima a raggiungere il suo pubblico, tra sala cinematografica e visione domestica.

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