#Venezia77 – Mari procellosi

Alla fine, non resta che il desiderio, dapprima timido, poi sempre più virale ed evidente, di essere ancora insieme a condividere questa cosa strana, inutile che chiamiamo cinema

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Alla fine, non resta che il desiderio, dapprima timido, poi sempre più virale ed evidente, di essere ancora insieme a condividere questa cosa strana, inutile che chiamiamo cinema

Mala tempora currunt. Un mattino il monito ha risuonato per le sale del Lido. A ricordarci, semmai ce ne fosse stato bisogno, della piega inquieta di questi giorni e, ancor più, di questi anni di contatti smaterializzati e connessioni solo virtuali. È stata una Venezia strana. Ed eravamo partiti con questa consapevolezza. Senza più un telefono che squillasse in sala, senza più un idraulico, senza tanti amici e colleghi (dove sono i Causo, i Pastor, i Silvestri?). Tutto a scartamento ridotto, nei ritmi, nei numeri, al punto che persino le energie si sono assestate su un minimo vitale, da un certo momento in poi. Termoscanner, controlli di sicurezza con i guanti, percorsi obbligati, barriere di separazione puntualmente sanificate, porte aperte a spalla, prenotazione dei posti on line (fare un programma da qui a tre giorni?), mascherine in sala, visioni in apnea… Forme di prevenzione futuriste e antichi rimedi, in una specie di rito di purificazione collettivo. Un’aria straniante, ancor più del solito, ha regnato sul Lido. Qualcosa a metà tra il ristagno dell’acqua e l’odore d’ospedale. Ma, a un certo punto, sembrava che tutto fosse stato sottoposto a un processo di essiccazione avanzata: tolta l’acqua in eccesso, ridotto il volume, è rimasta la sostanza di un’esperienza necessaria di ripartenza.

I film, innanzitutto. Sì, nonostante le difficoltà di selezione, di costruire discorsi coerenti in un anno terribile, è stata un’edizione positiva. Al di là del concorso ufficiale e dei premi, come sempre. Sarà che le mascherine ti mozzavano comunque il fiato, sarà che, invecchiando, sempre meno sono le cose che non ti piacciono, hai potuto costruire il tuo percorso eccentrico tra una sezione e l’altra, a partire magari da una SiC di gran livello.Alla fine, il Leone d’Oro è andato, come da previsione, a Nomadland di Chloé Zhao, film che ha ricevuto un tributo quasi unanime già in proiezione, ma che, nel profondo, ha lasciato degli strascichi. Anche nella nostra redazione. Tra chi si è abbandonato a deviazioni wendersiane e chi non è riuscito a liberarsi da una sensazione di convenzionalità, di indipendenza già pacificata.

Però le visioni importanti sono state diverse. A partire dai giganti, ovviamente. Come Frederick Wiseman, che sempre più racconta quest’anima assembleare della democrazia, la fatica necessaria dell’infinita discussione e della parcellizzazione delle decisioni, al di là della retorica patriottica e delle conciliazioni di facciata del politico. O come Ann Hui, che in Love After Love, con eleganza suprema, ricostruisce un Hong Kong già sudata e decadente ed entra nelle ossessioni del desiderio e del sentimento, nella densità del cuore mélo di ogni rapporto. E, poi, le parabole nere di Lav Diaz, i rosari di passione dolorosa di Hilal Baydarov, la straordinaria economia del set di Kiyoshi Kurosawa, la lucidità investigativa di Alex Gibney, che costruisce pian piano il suo attacco frontale alla pena di morte a partire dalla fascinazione contorta del male, the bliss of evil avrebbe detto qualcuno. I deliri psicopatologici dei serial killer si scontrano con l’altrettanto ossessiva monomania della dottoressa Lewis, intenzionata a ogni costo a individuare lo Split che struttura la Bestia, la scissione di personalità che dà il via all’incubo. Ma, in definitiva, la suggestione quasi shyamalaniana di Crazy, Not Insane rientra nella coerente dirittura morale dell’inchiesta democratica di Gibney.

Ancora, tra gli italiani, la vertigine assoluta di Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, che dichiarano il loro atto di fede nella capacità delle immagini di costruire una memoria e una linea di trasmissione; le derive quasi fantascientifiche di Gianfranco Rosi, che con Notturno ha orchestrato l’archittettura immaginaria più dibattuta e contestata di questa Venezia 77. E il sofferto attacco di Salvatore Mereu al colonialismo turistico, il doppio Guadagnino, da Canicattì a Bonito d’Irpinia, da Hollwood a Firenze, l’omelia contadina di Alice Rohrwacher e JR, l’impudico, sgangheritissimo ritratto di famiglia di Alessandro Rossellini, lunga la linea d’ombra immensa e ingombrante del nonno Roberto.

Ma, alla fine, due titoli rimangono negli occhi e nel cuore fino a scavare solchi infiiniti. Narciso em férias, il documentario di Renato Terra e Ricardo Calil, in cui Caetano Veloso racconta i mesi di prigionia subiti durante la dittatura militare negli anni di Artur da Costa e Silva. A seguito della Legge Istituzionale n.5 (AI-5), il 13 dicembre 1968 Veloso viene prelevato dalla sua casa di Sao Paulo insieme all’amico Gilberto Gil e portato in una caserma di Rio de Janeiro. Da lì è tutto un susseguirsi di situazioni e sensazioni, di impasse incomprensibili e fughe musicali della fantasia e del desiderio. Veloso regge il film da solo, volto, corpo e voce (inconfondibile), abbarbicato a una sedia smarrita in una gabbia di cemento vuota, stretto, come un Kafka tropicalista, nell’impasse di un ingranaggio processuale e nella colonia penale di un’immagine bloccata. Nessun inserto, nessun’altra testimonianza. Una specie di confessione che diventa immediatamente una performance unplugged, fatta ritmi, pause, deviazioni, risate contagiose e commozioni lancinanti. È la costruzione della Torre di Babele. La lingua “calda” di Veloso che manda fuori asse l’ufficialità del linguaggio poliziesco, la carnalità del pensiero che diventa un modo di liberazione dell’anima, sperma nell’occhio, lacrime nel sesso, erotizzarsi e devirilizzarsi. Cambiare faccia in tre secondi, ricordare, amare, perdersi nel delirio o nell’LSD. La politica è anche affare di posizione del corpo e così l’immagine bloccata si muove di un’energia entropica(lista) devastante, vitalissima. È parlare delle cose da un’altra prospettiva siderale, ad aprirne il limite, come la Terra vista dalla luna.

E l’altra folgorazione è Hopper/Welles conversazione fiume tra due personaggi diversissimi, eppure entrambi eccessivi ed incontinenti. Il volto di Hopper e la voce di Welles, mediata dal suo doppio hustoniano di The Other Side of the Wind. Un non film con cui litigare, come puntualmente riportato dall’amico Marco Romagna. Nel senso che entri ed esci a seconda del tuo stato d’animo e d’attenzione, a seconda delle connessioni e dei disaccordi che si stabiliscono tra quelle discussioni e il tuo pensiero. Si parla di cinema, ma soprattutto di modi di vedere e di affrontare il mondo, le cose, la politica, lo spirito e la fede più segreta, il sesso, il lavoro e l’opera, l’ansia di una rivoluzione che vorrebbe in cambio il martirio della libertà contro la benedizione dell’eccezione solitaria. A un certo punto Welles, o chi per lui, rinnega la possibilità della creazione, del regista Dio. Hard to Be a God. E dichiara di stare dalla parte del magico, ciò che è proprio dell’uomo. La possibilità di dare un’altra curvatura al non senso delle cose o di arrendersi ad esso, per sintonizzarsi con la lunghezza d’ombra di un mistero, di una verità ancora più segreta. La vita è solo rugiada. Eppure… Il lato magico che sta in quei puntini sospensivi…

Narciso em férias e Hopper/Welles, tra l’altro, sono due visioni che mostrano quasi un vicolo cieco dell’immagine. Stanno sull’essenziale di un corpo, di uno sguardo e di una parola, punti e linee dell’unica triangolazione necessaria, avrebbero detto D’Anolfi e Parenti. E stanno più di ogni altra cosa a raccontare l’esperienza sospesa e assurda di questa Venezia 77. Tra distanziamenti obbligati eppur incerti, mascheramenti e rivelazioni, febbri inventate, frustrazioni paranoiche, battute a volto coperto, errori di valutazione e giudizi sommari, imitazioni d’accento e imprecazioni. Alla fine, possiamo dirlo, più che sulla frenesia delle discussioni cinefile, tangenziali e talebane, dei perché sì perché no, dei Rosi è morto viva Rosi, la distanza si è ridotta e si è ampliata a seconda delle orbite di tensione e di repulsione degli incontri, del moto ondoso dell’alcool, come fossimo stati paperelle di gomma su mari procellosi. È stata questione di boccioni di gel all’ingresso di casa e pacche sulle spalle, di abbracci abbozzati e di strette di mano evitate, di saluti dati e non dati. Il desiderio, dapprima timido, poi sempre più virale ed evidente, di essere ancora insieme a condividere questa cosa strana, inutile che chiamiamo cinema. Per riportarlo però all’unica cosa che conta. Poter stabilire un contatto prima, durante e dopo i film. Anche se separati da una poltrona, da una transenna, anche appoggiati su una panchina di pietra, sul marmo di una fontana. È sembrato, per un istante, che, al di là degli abiti da sera e gli sparapose, tutto il baraccone fosse tornato a una dimensione più umana, anche se fragile e spaventata. Ci vediamo alla prossima, se dio vuole. Anche solo per una birra.

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