BERLINALE 74 – Abitare la città

Il lavoro di Carlo Chatrian in questi anni è stato encomiabile, nonostante le difficoltà. Ma l’impressione è che il festival debba ripensare la propria posizione, anche a in rapporto alla città

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Era noto da mesi che questa Berlinale 74 sarebbe stata l’ultima della direzione artistica di Carlo Chatrian. Se la direttrice esecutiva Mariëtte Rissenbeeck aveva annunciato già da tempo la sua intenzione di non proseguire dopo il 2024, scadenza naturale del mandato, le dimissioni di Chatrian sono arrivate a settembre, nel bel mezzo della Mostra del Cinema di Venezia, con la laconica presa d’atto di una situazione ingestibile: “non ci sono più le condizioni per continuare a ricoprire l’incarico di direttore artistico”. Decisione giunta qualche settimana dopo che il ministro della cultura tedesco e i vertici della Berlinale avevano dichiarato l’intenzione di tornare a una direzione unica, “per sviluppare ulteriormente la Berlinale come festival del pubblico” e “rafforzarne la posizione tra i festival internazionali di cinema di serie A”. Parole che, tra le righe, lasciavano intendere un’insofferenza nei confronti di scelte artistiche considerate troppo “radicali”, poco inclini al glamour, ai tappeti rossi e al mainstream. Una percezione delle cose che non è stata modificata neanche dai tentativi degli ultimi anni di attirare alcuni grandi nomi hollywoodiani, con Shyamalan, Kristen Stewart, Lupita Nyong’o presidenti di giuria, l’Orso d’Oro alla carriera a Spielberg e a Scorsese. A dicembre, poi, è arrivata la nomina della nuova direttrice artistica, Tricia Tuttle, che dovrebbe cominciare il suo lavoro ad aprile.

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Si può discutere sull’opportunità dei modi e sulla tempistica. Fatto sta che questa Berlinale 74 si preannunciava come un’edizione di commiato e di passaggio. E così è stato in effetti: una sottile atmosfera crepuscolare, accentuata dalla situazione in cui versa la zona di Potsdamer Platz, cioè il cuore del festival, fulcro negli anni ’90 di uno dei progetti urbanistici più ambiziosi della capitale della nuova Germania riunificata, ridisegnata e riplasmata da architetti di prim’ordine, Renzo Piano, Richard Rogers, Hans Kollhoff, Helmut Jahn. Bè, negli ultimi anni, l’area si è progressivamente spopolata, diventando sempre più marginale rispetto alle traiettorie vitali di Berlino. Nonostante vari tentativi di rilancio (come la trasformazione del vecchio Arkaden in un nuovo centro commerciale con un’offerta food multietnica, il The Playce), l’attrattiva residenziale della zona sembra inesorabilmente nulla, così come resta limitata la frequentazione dei servizi commerciali, dei ristoranti o dei luoghi di intrattenimento. Lo stesso Sony Center di Helmut Jahn, da due anni teatro di un progetto di riqualificazione e quindi parzialmente impraticabile, è lo specchio di una zona che a fatica a ritrovare una identità. Con tutte le ricadute sull’organizzazione logistica del festival.

A partire dal 2020, Carlo Chatrian si è ritrovato a operare in un contesto in trasformazione e ha dovuto affrontare difficoltà oggettive notevoli. A cominciare dai limiti imposti dalla pandemia: nel 2021 la Berlinale si è svolta online, nel 2022 si è tenuta in versione ridotta, con una serie di controlli sanitari a dir poco stringenti. Senza contare i tagli di budget che hanno costretto a ripensare la struttura del festival, togliendo spazio, ad esempio, a una sezione come Berlinale Series, che doveva connettersi ai cambiamenti delle strategie di narrazione e fruizione delle immagini. Eppure, nonostante tutto, in questi anni Chatrian e il suo gruppo di selezionatori hanno provato a dare uno slancio e una coerenza alla programmazione, muovendosi su più fronti, in particolare sulla sperimentazione, sui nuovi sguardi, sulle produzioni indipendenti, se non addirittura marginali, su un allargamento degli orizzonti geografici, in verità sempre più ristretti negli altri grandi festival. Al di là delle discussioni fisiologiche sul merito di alcune scelte, Il lavoro svolto è stato encomiabile. E lo conferma anche questa edizione 2024, che ha cercato un punto di equilibrio tra la varietà e la coerenza di un discorso sul cinema e sul mondo. Un discorso politico, innanzitutto. Come dimostra l’ottimo Orso d’Oro, Dahomey di Mati Diop, che evoca le cicatrici del colonialismo negli sforzi di una riappropriazione culturale. Ma anche Pepe di Nelson Carlos de Los Santos Arias (Orso d’Argento per la miglior regia), My Favourite Cake di Maryam Moghaddam & Behtash Sanaeeha, La cocina di Alonso Ruizpalacios… Certo, non tutto ha convinto, come il film A24 A Different Man, che cerca di raccontare l’ossessione per le immagini del contemporaneo, ma incespica su toni e temi che hanno precedenti fin troppo illustri. Oppure le contorsioni fantascientifiche e teoriche di Pietro Messina, che in Another End si avviluppa in un discorso troppo confuso, appesantito da una forma altisonante, o la discesa nelle oscurità della storia di The Devil’s Bath di Veronika Franz e Severin Fiala. Eppure il concorso ha offerto una panoramica su una molteplicità di prospettive, dando spazio a film “piccoli”, a basso budget, a registi emergenti, accanto a produzioni più strutturate e ad autori più consolidati. Passando dai toni lievi, sconclusionati eppur straordinariamente liberatori di Gloria! di Margherita Vicario (uno dei titoli più sorprendenti), ad accenti più gravi ed equilibrati, come quelli di From Hilde, with Love, di Andreas Dresen. Una selezione su cui, naturalmente, hanno lasciato un’impronta importante i nomi più affermati, come Hong Sang-soo, Bruno Dumont, Abderrahmane Sissako, Olivier Assayas. O ancora, fuori concorso, pur nella loro problematicità, Shikun di Amos Gitai, Turn in the Wound di Abel Ferrara. E soprattutto Averroès & Rosa Parks di Nicolas Philibert che prosegue lucidamente la sua ricerca dopo Sur l’Adamant, l’Orso d’Oro dello scorso anno, e la gemma abbagliante di Tsai Ming-liang, Abiding Nowhere, nuova “avventura” del walker che attraversa il mondo con il passo lento di Lee Kang-sheng.

Ecco, al di là delle liste e degli elenchi di nomi, un’indicazione netta è data dalla conferma dell’urgenza e nella vitalità del documentario, in tutte le sue mille forme: Mati Diop e Philibert, appunto, il film vincitore di Encounters, DIRECT ACTION di Guillaume Cailleau e Ben Russell, i film di Kazuhiro Soda e Costanza Quatriglio in Forum (sezione che sotto la nuova guida di Barbara Wurm ha regalato alcune delle visioni più coinvolgenti di questa Berlinale). Certo, come già negli scorsi anni, è mancato il cinema americano da grande pubblico. Mancanza parzialmente sopperita dall’apparizione “aliena” di Adam Sandler, protagonista, insieme a Carey Mulligan e Paul Dano, di Spaceman di Johan Renck, il titolo Netflix che ha fatto storcere il naso ai critici severi, e che pure ci sembra un altro straordinario tassello della filmografia sandleriana, perfettamente in linea con i suoi temi e il suo cuore poetico. Sulla capacità d’attrazione dei grandi nomi e delle produzioni più importanti, si potrebbe aprire una discussione infinita sullo scarto gerarchico sempre più evidente tra i festival e sul ruolo famelico di alcuni grandi eventi, Cannes su tutti. Ma in ogni caso, l’offerta di questa Berlinale 74 testimonia una vitalità e un’irrequietezza di sguardo notevoli. Ora si apre l’incognita sul futuro del festival e sulla nuova direzione di Tricia Tuttle. Come si rapporterà alle nuove frontiere del cinema e del mondo? Ma soprattutto come si inserirà nel contesto perennemente in movimento di Berlino? Gran parte del fascino della Berlinale è sempre stato nella connessione profonda con le linee di direzione della metropoli. Le proiezioni attraggono ancora il pubblico cittadino, oltre gli appassionati e gli addetti ai lavori di tutto il mondo. Ma l’impressione è che si sia arrivati a un momento cruciale, in cui il festival deve ripensare il proprio ruolo. Non solo per ribadire la sua posizione in serie A. Ma per non smarrire il dialogo con la città.

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