#CinemaRitrovato2021 Paesaggi d’autore – Incontro con Isabella Rossellini e Alice Rohrwacher

Isabella Rossellini, Alice Rohrwacher e JR hanno chiacchierato al festival in occasione del restauro de Il mulino del Po di Alberto Lattuada, presentato insieme a Omelia contadina e Green Porno

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Il cinema come testo aperto suggerisce sempre uno spunto per connessioni nuove e impreviste che sta allo spettatore sviluppare. E il Cinema Ritrovato favorisce questi incontri felici da cui poi ricadono a cascata riflessioni delle più disparate, oltre che scoperte affascinanti. Così è stato il dialogo tra Isabella Rossellini e Alice Rohrwacher iniziato in occasione della proiezione di Francesco giullare di Dio, proseguito in una conversazione dal titolo Città e campagna e concluso, ma non esaurito, in piazza Maggiore con una serata che ha visto la partecipazione dell’artista dell’immagine, e degli immaginari, JR, che ha ricordato la sempreverde Agnès Varda. Ma andiamo con ordine, se mai ce ne fosse uno, partendo dalle impressioni che il film di Rossellini ha avuto.

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Rohrwacher: Naturalmente l’ho già visto tante volte. Però c’è una differenza tra la visione individuale e domestica e quella al cinema – non avevo mai avuto questa possibilità. Vederlo al cinema è stato come vederlo di nuovo. È una boccata d’aria fresca incredibile. Non ci si può credere quanto continui a essere vivo, nuovo, primo in qualcosa. Credo in questa capacità di raccontare una storia spettacolare senza mai spettacolarizzare, senza mai vendere i personaggi, senza mai approfittarne per metterci dentro se stessi. Poi fa anche molto ridere, e la bellezza di vederlo al cinema è che si ride insieme e quindi si ride di più, magari da soli si ha un autopudore. Ma quant’è bello andare al cinema.

Rossellini: Per me è stata la stessa cosa. È il primo film che vedo sul grande schermo dal covid, quindi da quasi un anno e mezzo. È uno dei film che preferisco di mio padre. Fin da piccola mi piaceva perché ha una specie d’innocenza e di sorriso, e più lo vedi e più è profondo. Ed è fatto con niente. Alcuni personaggi sono veri preti francescani che mio padre prese dal convento di Maiori. Papà ha catturato quello che loro erano nella vita. È un film che mi ha di nuovo commosso.

Francesco è un film che riconduce la spiritualità al suo valore più alto: l’uomo vive nella natura, ci parla ma non riesce ad afferrare quello che è un mistero molto più grande di lui. “Ho pensato molto ai dipinti di Giotto”, racconta Isabella, “dove la natura è sempre così presente e rappresenta la creazione di Dio – l’uomo fa parte della natura. Da un certo momento ci siamo pure staccati, come se ci fossimo noi e la natura, però nell’iconografia medievale l’uomo è natura”.

Entrambe vivete in campagna. Cosa producete?

Rohrwacher: Personalmente aiuto a fare tante cose ma non saprei gestire un processo dall’inizio alla fine da sola. Però in famiglia si produce miele, vino, olio. Questa è stata la grande domanda che mi sono sempre fatta. Sono vissuta nell’abbondanza, in un mondo ricco di cose, e mi sono chiesta perché sono tutti scappati da qui. Chissà se c’è un motivo sinistro dietro questa abbondanza o forse l’essere umano ha creato forme sociali di oppressione e di sofferenza per far sì che tutti siano scappati. Perché comunque quando si vive in campagna si vede che il paradiso è in terra.

Rossellini: A 18 anni sono andata via dall’Italia per vivere in America, quindi sono lì da più di 50 anni. E in America la divisione tra città e campagna è molto più radicale che in Italia. In parte perché in Italia c’è una lunga tradizione culinaria che ha fatto sì che queste due dimensioni si leghino. In America non c’è ed è stata una riscoperta degli ultimi 20 anni. Avevo molta nostalgia dell’orto. Da piccola sarei voluta andare a studiare agricoltura. Poi ho studiato etologia e una delle cose che mi ha più sorpreso è quanto i contadini sanno di scienza: devono conoscere la meccanica, gli animali, il tempo. È una cultura pazzesca che è stata un po’ disprezzata e che si era persa con l’industrializzazione. Ora però c’è un recupero e un favorire la varietà. Nella fattoria in cui vivo mi occupo degli animali, la mia amica dei vegetali. Ho galline, api e adesso anche pecore; ho iniziato con la produzione di lane antiche. Anche le mie galline sono tutte di razze antiche e sono più piccole, fanno poche uova, di colori e misure diverse, e volano – invece con la selezione l’uomo aveva tolto loro la capacità di volare. Al supermercato le uova sono tutte uguali. È la varietà quello che si perde.

Isabella Rossellini è stata anche regista e interprete di alcuni corti per il progetto Green Porno, nato nel 2008 per il Sundance Channel di Robert Redford, che mette al centro l’ambiente e i comportamenti degli animali – la loro vita sessuale, le loro abitudini alimentari – con un linguaggio molto divertente e al contempo informativo in cui l’attrice stessa vestita da lumaca racconta come questa abbia sia il pene che la vagina; o indossando un costume che riproduce le parti anatomiche della mosca ci mostra come si accoppiano.

Giuseppe Bertolucci aveva un’enorme ammirazione per voi cineasti che sapete raccontare la natura perché diceva che lui non sarebbe mai riuscito a inquadrare una zucchina o una mucca.

Rossellini: Quando mia madre ha fatto Stromboli era abituata a recitare negli studi di Hollywood. Mio padre scrisse il soggetto: una donna straniera che subito dopo la guerra è in un campo profughi e per riuscire a uscirne seduce un pescatore e lo sposa pensando di fare una vita migliore. Quando mia madre chiese a mio padre chi fosse l’attore, andarono al porto e lui le disse: “Ecco, scegliamone uno!”. Mio padre era convinto che ci fossero alcune cose che segnano tanto un uomo, come il fatto di aver pescato tutta la vita, il modo di manovrare le reti, di muoversi, di stare un’intera giornata sotto al sole. Cosa che è impossibile fare col trucco; non si può chiedere a Cary Grant di fare il pescatore siciliano. Poi mio padre mischiava attori e non attori, e questa cosa mi piace molto. La trovo di un’enorme libertà. Anche questa celebrazione del cinema dell’arrangiarsi: mio padre diceva sempre che è più importante quello che si vuole raccontare di come.

Rohrwacher: Sentendo dire mucca mi viene subito in mente First Cow di Kelly Reichardt, un bellissimo film sull’arrivo dell’agricoltura e della prima mucca. È difficile raccontare la natura, tante volte c’è proprio un imbarazzo. Ad esempio quello che abbiamo fatto con Lazzaro e Le meraviglie, che non parlano direttamente di campagna ma in cui i protagonisti odiano la campagna, è stato partire proprio dalle basi, cioè per filmarla la costruiamo. Questo aiuta, cioè far sì che tutte le maestranze che la lavorano al film vivano davvero quell’esperienza. Parlando con Jonas Carpignano gli ho detto come secondo me siamo gli unici registi a costruire un mondo intero per fare un film di cui poi vediamo solo una piccola parte. È una natura costruita che però è diventata esperienza per gli attori e chi lavora al film. Questo è forse quello che manca di più negli attori di oggi, che devono imparare il lavoro nella campagna. Sento che sta tornando questa necessità di lavorare con il corpo in una maniera naturale.
L’impressione, poi, è che nel nostro cinema fino a un certo momento non ci sia stato bisogno di raccontare la campagna perché tutti venivano dalla campagna e c’era la voglia di raccontare il nuovo, il diverso, l’altro. In qualche modo tanti film fino a tutto il boom industriale raccontano della campagna senza farlo direttamente. Ad esempio Due soldi di speranza non è un film che racconta la campagna ma in realtà ne è pieno. Tutto era molto dentro, si raccontavano le relazioni, l’umano, la vita e tutti i registi, da Fellini a Rossellini, sapevano quand’era la stagione delle cose. Penso che oggi per raccontare la campagna non bisogna raccontarla, cioè i luoghi devono essere parte integrante delle dinamiche umane. Per me è sempre difficile quando inizio un film perché bisogna appunto strappare alla campagna quest’immagine idilliaca e anche di sofferenza. È un luogo complesso, ma la complessità non è qualcosa di gradito.

Omelia contadina, diretto da Rohrwacher e JR, mette in scena proprio questo tipo di complessità a cominciare dalla forma. Non un cortometraggio quanto piuttosto un’azione cinematografica, un movimento di morte e rinascita che continua perpetuo come il ciclo della terra e delle stagioni. “Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi”, dice uno dei contadini giunti sull’altopiano dell’Alfina per prender parte all’estremo saluto all’agricoltura che progressivamente sta lasciando il posto alle monoculture intensive e ai processi industriali. Questo sbattere ostinatamente i piedi nel fango è tanto una forma di protesta quanto un voler ribadire il contatto naturale con la terra e con la materia prima che avrebbe generato l’umanità. Così vediamo anche nel film di Rossellini, nella sequenza iniziale in cui Francesco di ritorno da Roma con i suoi fratelli attraversa scalzo la terra battuta da scrosci di pioggia imperterrita. E così vediamo nel Mulino del Po, quando il mugnaio Princivalle corre lungo la riva fangosa del fiume per andare in soccorso della sua casa e fonte di lavoro, il mulino dove vive con la famiglia, che viene messo a rischio dal vento e dall’alta marea. Il film di Lattuada poi si apre ancora a un’altra traccia col presente descritto in Omelia contadina, ed è nella rappresentazione della natura e della campagna. I Verginesi, che occupano da più di trecento anni le terre sul delta, stanno per essere sfrattati dai padroni a causa dello sviluppo intensivo dell’agricoltura. I contadini fanno fronte comune unendosi in una lega socialista, si ribellano ai loro superiori, sfidano il fuoco dell’esercito e vincono. La sovversione dell’ordine richiede però un sacrificio. Il giovane Orbino resta vittima di un sentimento di paura e di vendetta da parte dei suoi stessi simili. Il suo corpo gettato nel fiume, come quello seppellito nella terra, viene restituito da questo deus ex machina e (ri)sorge all’alba di fronte alla promessa sposa che l’aveva atteso dalla notte. Il cerchio della vita che lega l’uomo alla natura si compie un’altra volta secondo una religiosità laica che accosta sofferenza, pentimento e riscatto – “così passa e ritorna il bene e il male degli uomini, e il tempo è simile all’andare del fiume”.

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