Rifkin’s Festival, di Woody Allen

Apparentemente il tipico film del regista con momenti divertenti ma più stanco rispetto ad altri. In realtà dietro la storia di Morty Rifkin se ne nascondono altre che raccontano molto di più.

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I colori sono quelli caldi di Vicky Cristina Barcelona. Ma in 13 anni tutto è cambiato per Woody Allen e non solo per la luce che allora era di Javier Aguirresarobe e ora di Vittorio Storaro. Tutto è cambiato per la sua vita. C’è in mezzo una bellissima autobiografia dai contorni horror (Woody Allen. A proposito di niente edita in Italia da La nave di Teseo) che porta a vedere questo nuovo film sotto una nuova luce, come un tentativo estremo di resistenza contro un mondo che lo ha prima osannato e poi abbandonato. Senza quel libro e tutta la storia, tutta la vita che c’è dentro, ora probabilmente si starebbe a parlare di Rifkin’s Festival come di un film a tratti piacevole, con qualche battuta azzeccata (“Hai odore di etanolo diluito”), ma in definitiva piuttosto stanco e certamente meno  riuscito rispetto ai suoi due precedenti, straordinari titoli come La ruota delle meraviglie e Un giorno di pioggia a New York. Poi dietro la storia di Rifkin’s Festival, se ne nascondono altre. Il film comincia con il protagonista, Mort Rifkin (Wallace Shawn) che sta in seduta con lo psicanalista. Ha dovuto interrompere il suo romanzo per accompagnare la moglie Sue (Gina Gershon), addetta stampa di cinema, al Festival di San Sebastian dove deve occuparsi del film di Philippe (Louis Garrel) un giovane, talentuoso ed egocentrico cineasta da cui è stato soprannominato ‘il Grinch’. Sue e Philippe sono sempre più intimi e lui è spesso di troppo. Poi un giorno avverte dei dolori al petto, viene visitato dalla dottoressa Rojas e ritrova quell’entusiasmo che sembrava aver perduto. Da quel momento cerca ogni scusa pur di poterla rivedere.

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La prima storia dietro Rifkin’s Festival è quella di un regista che ha una necessità impellente di girare film. Il cinema per Woody Allen è una terapia ininterrotta. Ha bisogno di raccontare e raccontarsi. Non importa con quali risultati. A volte si fanno film belli, a volte brutti. Ma non è quello il problema. Però, come la raccolta di scritti di Michelangelo Antonioni edita da Marsilio, Allen urla, rivendica che “Fare film è per me vivere”.

La seconda storia è quella della nostalgia. È inevitabile che dopo 56 anni di carriera e 49 film girati, anche il cineasta newyorkese cominci a guardarsi alle spalle. Quelle sue immagini, visioni, tentazioni, sono la sua vita. Come aveva detto Fellini dopo aver vinto il Festival di Mosca per Intervista, “io so fare solo questo”.

La terza storia è quella della vita che c’è stata prima del Covid-19. Così anche il mondo dei festival di cinema, con i suoi schematici rituali, oggi rappresenta un’abitudine, anzi, un piacere, a cui si vorrebbe ritornare prima possibile. Allen si diverte, provoca, fa dire al suo alter-ego, il bravo Wallace Shawn (anche se avremmo visto benissimo proprio Woddy nei panni di Morty Rifkin), che Susanna!, La vita è meravigliosa e A qualcuno piace caldo sono brutti film, prende in giovani cineasti, giornalisti, addetti stampa (“Ogni film che si occupa della realtà entusiasma la critica”). Attraverso il personaggio di Louis Garrel, che perfidamente si chiama Philippe (proprio come il grande regista francese e padre dell’attore) e pensa di fare un remake di Fino all’ultimo respiro, coglie nel segno e realizza, in un film con alti e bassi, uno dei suoi ritratti comici più divertenti degli ultimi anni dove non ha nessuna pietà.

La quarta storia è quella della seduzione, della celebrazione della bellezza femminile. Rifkin’s Festival contempla, ama, cerca di sedurre la dottoressa interpretata da Elena Anaya, attrice spagnola che si è messa in evidenza soprattutto con La pelle che abito di Almodòvar ma è stata anche uno dei personaggi più interessanti di Wonder Woman, il “dottor Poison” che ha creato il gas mostarda.

Poi c’è l’ultima storia ed è quella decisiva. Il cinema diventa in Rifkin’s Festival una specie di cammino dantesco che riparte Welles di Quarto potere e prosegue attraverso film e registi amati da Woody Allen: Bergman (Persona, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo con Christoph Waltz che incarna la morte), Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), Claude Lelouch (Un uomo, una donna), Jean-Luc Godard (ancora Fino all’ultimo respiro), François Truffaut (Jules e Jim in uno dei momenti più divertenti) e soprattutto Federico Fellini di 8 1/2. Dal racconto allo psicanalista possono esserci solo sogni e visioni del cinema di Allen che, ora, può alimentarsi solo di desideri e sogni perduti. Anche se altalenante, si ha ancora bisogno di un cinema come questo.

 

Titolo originale: id.
Regia: Woody Allen
Interpreti: Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel, Elena Anaya, Sergi López, Christoph Waltz, Steve Guttenberg
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 92′
Origine: Spagna, USA, Italia 2020

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.31 (32 voti)
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