#Venezia74 – The Shape of Cinema, riflessioni liquide (oltre il Lido)

Tra musealizzazione del cinema e laboratorio di nuovi linguaggi, formati, dispositivi, Venezia 74 ha segnato interessanti passi avanti. Con alti e bassi, un’ edizione superiore alle tre precedenti.

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Dove eravamo rimasti? In sede di presentazione di Venezia74, subito dopo la conferenza stampa romana, scrivevamo così: “in particolare in questo momento storico di forte ri-assestamento della formula Festival – il 2017 tra polemiche Cannes/Netflix, Virtual Reality e grandi Blockbuster assenti, segna comunque un crinale importante – è anche sul tasso di pre-visione di possibili futuri per il cinema e per i suoi contenitori che si deve giudicare la riuscita di un’edizione”. Insomma: da un lato è giusto ancora soffermarsi sui film, gli autori, le riflessioni estetiche o etiche sull’immagine, ovvero la tradizione della Mostra; dall’altro diventa centrale sondare le nuove frontiere dell’audiovisivo, la dialettica tra supporti e formati, la riflessione sui dispositivi, ovvero la nostra vita dentro queste immagini sempre più a-portata-di-mano. Cosa possiamo dire, infine?

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Partiamo da un dato. L’età media dei registi in concorso, facendo un rapido calcolo, si aggira più o meno sui 50 anni. In un buon mix tra giovani (semi)esordienti come il francese Legrand o gli italiani Pallaoro e Riso; e grandi maestri del passato come Schrader o Wiseman. Un concorso sulla carta meno coraggioso dello scorso anno (molti nomi collaudatissimi), ma a conti fatti più convincente rispetto alle ultime tre edizioni.

loveAbbiamo visto film che hanno saputo parlare agli addetti ai lavori (le polemiche sull’Aronofsky biblico e le bagarre sui generosi fondoschiena di Kechiche hanno infiammato il Lido come non si vedeva da anni), ma hanno saputo anche evadere dall’isola della cinefilia (la favola americana di Del Toro, le satire divistiche stantie alla Clooney o sagaci alla McDonagh). E poi ancora, oltre-concorso, come non ricordare il provocatorio esorcismo di Friedkin o il Ferrara sempre e comunque politico, che hanno oltrepassato il Lido creando dibattito tra “la gente a casa” (mi sono personalmente arrivati parecchi messaggi di amici lontani dal mondo-cinema che chiedevano incuriositi di questi due documentari così discussi). Insomma: forse non ci sono stati grandi capolavori – eccetto First Reformed, amatissimo da Sentieri Selvaggi –, ma la media dei film presentati è stata comunque notevole. Un dato da non sottovalutare in uno degli anni più neri per i Festival internazionali (le incerte selezioni di Berlino e Cannes stanno a testimoniare un necessario ripensamento della formula Festival). E ancora: se un limite abbastanza evidente delle precedenti edizioni targate Barbera era stato proprio la mancata scoperta di talenti da seguire a Venezia o inseguire in altri festival, beh, Xavier Legrand (vintore di due premi), Andrea Pallaoro (che dopo l’interessante sguardo sull’America profonda di Medeas è stato promosso in concorso con l’altrettanto interessante sguardo sull’Europa di Hannah) e soprattutto gli ottimi orizzonti che attendono Sofia Djama (il suo Les Bienheureux è stata una delle più belle sorprese dell’edizione)… sono tre percorsi da tenere sicuramente d’occhio per il futuro. Da non dimenticare, poi, il buon ritorno del genere: nelle sue declinazioni più autoriali e austere (il western di Haigh e Thornton), ludiche e destabilizzanti (il musical dei Manetti o il noir di Zahler), aeree e senza-tempo (le sublimi lezioni di cinema di John Woo e Takeshi Kitano).

12E allora: sì certo, i discutibili premi della giuria (ignorare del tutto Schrader e Wiseman…?). Sì certo, l’esperienza sempre un po’ faticosa del Lido (comunque in costante miglioramento rispetto agli anni del cratere da coprire). Sì certo, qualche dubbio sulla selezione (il continente asiatico può offrire solo vecchi maestri o giovani un po’ invecchiati alla Vivien Qu?). Ma quel che di positivo ci si porta a casa da Venezia 74 sono soprattutto i tentativi di allargare gli orizzonti dell’esperienza filmica immergendosi nel mare dei “fuori formato” interfacciati all’arte cinematografica in Mostra. Vedere nella stessa edizione due attese produzioni Netflix come Suburra e Wormwood insieme al vertiginoso documentario/archivio Jim & Andy che attende fiducioso una piattaforma di distribuzione; o ancora l’inedito e straordinario cortometraggio di Jean Rouch insieme alla “prima serata” dedicata al capostipite di molti linguaggi sformati come Thriller 3D di John Landis – il videoclip ha ormai una dignità di archeologia dei nuovi linguaggi, quindi è degno di restauri e retrospettive ad hoc –, non sono cose così comuni per una “Mostra d’Arte Cinematografica”. La Realtà Virtuale, infine, ha fatto sezione a sé, tempo a sé (con prenotazione a ore prestabilite) e spazio a sé (in un’isola adiacente il Lido, al Lazzaretto, scelta discutibile forse, ma anche metafora di una nuova (ir)realtà che sta arrivando, è lì, dietro l’angolo… e potrebbe presto conquistare la Sala grande). Insomma la sensazione di fondo è stata che il cinema come medium possa persistere nella nostra epoca solo se ha il coraggio di interfacciare i sempre più mutevoli linguaggi dell’audiovisivo. Solo in questo modo il film (e la stessa concezione di Autore) può trovare ancora una sua forza e una sua voce. Per confronto e non più come (s)oggetto estetico da contemplare dall’alto.

tappetoA proposito: cosa ci ha detto il cinema-cinema dei tappeti rossi? Nel mediocre Downsizing il mini-display di un tablet ri-diventa un grande schermo per gli umani rimpiccioliti nel nuovo millennio, tornando a “guardare insieme”; nel film leone d’oro The Shape of Water la sala cinematografica anni ’60 che proietta peplum e western – e che soffre già la perdita di pubblico per l’arrivo della televisione nelle case – diventa letteralmente un rifugio per le solitudini metropolitane di una Persona e di una Creatura mitologica. In Sweet Country, poi, un saloon (del divertimento) diventa un tribunale (della legge), ma diventa anche fugacemente un’arena a cielo aperto dove i novelli-cittadini assistono affabulati all’avvento del cinema nel west australiano. Per arrivare infine al visionario (ri)montaggio nella sala cinematografica (a) Disperata del film di Winspeare, dove la vita più comune può diventare autentica vita in comune. Insomma il cinema sta ragionando su se stesso, sulla propria perdita di centralità nel panorama mediale attuale, sulle possibili sopravvivenze di un’esperienza e (perché no?) sulle contaminazione più radicali. Ecco: Venezia 74 ha segnato (timidi ma importanti) passi avanti verso questa strada. Se poi sarà stato un fuoco di paglia o meno lo vedremo in futuro, ma la dialettica tra la musealizzazione del cinema e il laboratorio di linguaggi oltre-IL-dispositivo è una cosa comunque da apprezzare.

Per gli sguardi originali (e originari), poi, non ci si può non immergere nelle onde di DRIFT, il film più bello di una Settimana della critica che tra alti e bassi ci ha regalato esperienze sempre vive, diverse, a tratti intelligentemente antitetiche, cercando il proprio forte punto di vista sulla contemporaneità non certo in un arroccamento ideologico, ma in un’apertura alla dialettica tra immagini e idee. Basterebbe solo la visione del formidabile cortometraggio Due di Riccardo Giacconi per rendersi conto di come pochi minuti di immagini passate possano trasformarsi in memoria collettiva proiettata a qualsiasi futuro.

driftE sì. Immagini di onde e immagini di sale, immagini di mostri e immagini di frontiera, immagini di catastrofi e immagini di rinascite… fino a quando tutte queste immagini, esperienze, riflessioni, formati, supporti, emozioni e schermi (tangibili o virtuali, grandi o piccoli, sciolti o restaurati) saranno messi a confronto… beh, ci sarà un cinema da difendere nel nostro tempo e non dal nostro tempo. Ci piace quindi pensare che ogni riflessione sul Festival, sui nuovi media e sulla vita tra Festival e nuovi media, possa essere racchiusa in due diari scritti con la vecchia penna e col cuore in mano. Quello di Ethan Hawke in First Reformed che scrive dal buio dell’irrappresentabile e scivola nel vuoto più traumatico del nostro tempo per poi trovare un laico momento di trascendenza verso la pace; e poi quello di Sienna Miller in The Private Life of a Modern Woman di James Toback, un diario dove ogni realtà è già data come simulacro, arte e incubo insieme, perché tanto la sola cosa che conta veramente sono le emozioni autentiche che quel caos dei segni produce ancora. Ecco: è stata una buona edizione non tanto o non solo per la qualità dei film (a ognuno i sui giudizi, le sue stellette, le sue battaglie) quanto perché ha facilitato questi (e tanti altri) ragionamenti. Il punto è di nuovo portarsi a casa il cinema. Il punto è di nuovo portarsi a casa riflessioni vive sulle cose e non solo sterili giudizi sulle “opere”. Perché in un mondo sempre più mediato e smemorato, la riflessione sulle immagini e sulle nostre vite tra le immagini rimane l’ultima frontiera che “la forma del cinema” (per dirla con Guillermo Del Toro) può rivendicare con forza. Arrivederci a Venezia 75.

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