#Cannes2019 – L’invasione dei droni volanti

L’organizzazione ha mostrato più di una criticità e si ha l’impressione di un sistema prossimo al punto di non ritorno. Ma, alla fine, i film hanno segnato un’edizione straordinaria

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Cannes è sempre Cannes. Frase fatta, nel bene e nel male. Chi frequenta da anni il festival lo sa e perciò si è abituato ad affrontare le cose con il cuore in pace. Le lunghe file, le proiezioni mancate, i controlli, le regole, le divisioni di casta e l’irregimentazione forzata dei flussi… Ma quest’anno tutto ha preso una piega più drammatica. Almeno nella percezione diffusa. Già dai primissimi giorni c’era chi si lamentava “sulla carta”, per la famigerata soppressione della proiezione stampa mattutina, per la priorità dell’accredito, per il divieto di fumo sulla terrazza della sala stampa o per il clima o chissà per cos’altro. Il mio più grande rammarico, ad esempio, è il non aver potuto onorare come si deve il bar di Papalou… Ma tant’è. Il fatto è che, al di là della pretestuosità di molte recriminazioni, ormai Cannes sembra affetta da una certa schizofrenia. Da un lato c’è un apparato festivaliero che mostra sempre più i limiti di una tendenza conservatrice e di un’autocelebrazione istituzionale. L’adesione “parassitaria” ai dettami dell’industria cinematografica globale, la saldatura indiscussa con il sistema francese di produzione e di distribuzione, il rifiuto aprioristico di altre possibilità di consumo: sono posizioni che creano più problemi che vantaggi, per il modo in cui si riflettono sulle scelte e sull’organizzazione del festival. Mentre le regole del protocollo e dell’etichetta assomigliano sempre più a una mascherata fuori tempo, quasi fossimo nel Settecento sadomaso di Liberté. Chi può accedere e dove, come, quando, a partire da che ora e con che vestito, chi e cosa si può fotografare, dove si può fumare, cosa si può mangiare e dove, niente olio della Mairie de Cannes al Grand Théâtre Lumière, lo si può recuperare dopo la proiezione, ma mannaggia a te preferisco riprendere i biscotti che mi hai fatto lasciare al “primo” ingresso e poi manco sono entrato in sala…

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Insomma, si dà l’illusione di un’accoglienza democratica, orizzontale, si predica un’apertura a tutti, anche ai giovani appassionati con l’accredito da tre giorni. Eppure, d’altro canto, c’è una rigidezza spesso miope, che si accompagna a un elitarismo studiato, ricercato e applicato anche con una certa perversione. Alla fine, tradotto in pratica, tutto contribuisce all’impressione di un sistema prossimo al punto di non ritorno. Non tanto per il numero e la capienza delle sale. Quanto per la complicata gestione dei flussi, i puntuali ingorghi che si creano nei varchi di accesso, gli estenuanti controlli che si moltiplicano a dismisura, anche a pochi metri di distanza, a ogni entrata e uscita tra il Palais e le sale. Ci sono state situazioni francamente fastidiose, come il “recinto” per il gregge in entrata alla Lumière. O addirittura al limite della rissa, come durante le lunghe ore di fila per le proiezioni più attese, quelle di Once Upon a Time… in Hollywood di Tarantino: ecco, lì ti aspettavi che accadesse l’irreparabile da un momento all’altro…

Senza contare altre questioni spinose che poco riguardano la nostra prospettiva e che, però, hanno colto un nervo scoperto. La discutibile introduzione delle anticipate stampa “riservatissime” e carbonare ha creato non pochi subbugli tra i quotidianisti, che hanno lamentato preferenze e disparità di trattamento. Ma, in fondo, è l’ennesima riproposizione del nodo irrisolto dell’approccio della stampa rispetto a un evento “culturale”, a un festival di cinema, rispetto a tutto ciò che possa riguardare l’approfondimento, il dibattito, l’analisi. Ma davvero un film è “bruciato” solo perché è già stato recensito e discusso da altri un giorno prima? Davvero non conta nulla la particolarità del punto di vista di chi affronta e racconta le immagini, il modo di vedere, attraversare, ripercorrere, la capacità e la voglia di articolare un discorso che vada al di là della semplice cronaca?

E poi, ovviamente, c’è la questione centrale del posizionamento strategico di Cannes rispetto agli altri grandi festival cinematografici, con la rivendicazione sempre più decisa di un primato di “prestigio”, che ruota intorno al perno fondamentale del mercato e si afferma con l’accaparramento degli ospiti e dei grandi avvenimenti (Tarantino su tutti, ma anche l’omaggio a Stallone “senza” Rambo 5) e con la celebrazione di un “mainstream autoriale” consolidato. Insomma, ciò che emerge è la contraddizione sempre più acuta tra un apparato di usi, abitudini, tradizioni, privilegi e le esigenze sempre più pressanti di un mondo cinematografico che si trasforma a tutti i livelli.

Poi, però, ci sono i film, motivo fondamentale per cui si continua ad andare ai festival. E al riguardo, non c’è che dire, è stata un’edizione straordinaria. Sebbene i film, quasi con beffardo spirito di contraddizione, raccontino un’altra visione, un altro approccio alle cose e al mondo. Si immergono nei punti di crisi e rottura, giusto al centro dello scontro. E rimettono in discussione i sistemi di potere, le regole, le differenze, i confini. Tante le immagini che hanno lasciato tracce profonde. E abbiamo provato a raccontare le nostre illuminazioni e i nostri smarrimenti in questi giorni di festival. Alla fine la Palma d’Oro è andata a Bong Joon-ho ed è il primo sudcoreano ad aggiudicarsi l’ambito premio. Ma quel che conta è che il riconoscimento a Parasite, apparenza di commedia che scivola progressivamente nell’horror, conferma una delle tracce più evidenti dell’edizione di quest’anno, quella dell’urgenza politica del cinema genere. Del resto, Tarantino, programmaticamente, affida a un attore di serie TV e b-movie e a uno stuntman il compito di ridisegnare l’ordine degli eventi. Ribadendo che anche attraverso i codici più abusati del racconto e le convenzioni dell’immaginario si possono rimettere in discussione le coordinate della storia e del presente. Poi, al di là delle metafore, Once Upon a Time… in Hollywood porta quasi alle estreme conseguenze l’infinita perdita di tempo del cinema di Tarantino. Distaccandosi, di fatto, dalle traiettorie narrative più agevoli e consolidate. Con ben altra coscienza rispetto all’Intermezzo di Kechiche. E non è certo questione di moralismi o altro… è che non ci rassegniamo a entrare in sintonia con l’estenuante gioco del suo tour de force discotecaro.

Certo, al di là dell’immaginario di genere, l’urgenza del presente ricorre anche in maniera più diretta, nelle modalità “note” di Ken Loach e dei fratelli Dardenne. Mentre il discorso sulla storia e sui suoi nodi problematici passa attraverso infinite declinazioni particolari tra Albert Serra, Kantemir Balagov, Nariman Aliev (Evge è una delle più belle sorprese di Un certain regard). Fino alla parabola favolistica dell’animazione di Mattotti con La famosa invasione degli orsi in Sicilia.

Ma restano gli innumerevoli avvistamenti di zombi, fantasmi e UFO. A cominciare dal film di apertura, The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch, che, peraltro, sembra rimanere vittima dell’atmosfera cimiteriale della sua Centerville, lontano da quell’andamento avvolgente, spiraliforme di Solo gli amanti sopravvivono o di Paterson. Per passare poi, alla Quinzaine, agli altri zombi di Bonello, magnifico slittamento “caraibico” del genere. E poi gli spiriti naufraghi di Mati Diop (Grand Prix). E le derive vagamente fantascientifiche di Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles (premio della giuria ex aequo) a cui risponde, dal lato della Quinzaine, Ang Hupa di Lav Diaz: parabole di resistenza all’oppressione, incursioni aliene di cangaçeiros, sbarchi di cinema novo, terzo, quarto, quinto. Cinema di droni volanti, forse le presenze più invasive ed emblematiche di questa Cannes 72, che attraversano, in tutt’altro contesto, i cieli di periferia dei misèrables di Ladj Ly (l’altro premio della giuria), film di rabbia dura e pura nonostante gli schematismi e le semplificazioni della mappatura della banlieu, della cintura che salta. Ma i droni accompagnano anche l’esplorazione andina di Patricio Guzmán, che torna a dissotterrare la memoria oscura del Cile, e lo straordinario “home movie” giapponese di Herzog. Segno di come anche le immagini contemporanee di più “facile” economia spettacolare possano essere incorporate, attraversate e deviate dalla dinamica di uno sguardo personale.

In fondo, è ciò che fa Porumboiu, che in La Gomera costruisce un preciso incastro thriller, ma solo per minarne la struttura in profondità, con un’ironia lucida e irrequieta, con la trasgressione di un fischio che sfugge all’onnipresenza dei sistemi di controllo. O ancora Bellocchio, che sembra sfiorare la forma del mafia movie e cedere alle tentazioni degli effetti action (la scena degli elicotteri), per tornare poi alle ossessioni più personali: i diavoli in corpo del maxi processo, la prigione dei ruoli e le maschere vuote del potere, le libere derive di sogni, incubi, visioni (del sabba), che sono l’immagine interiore della “reale”, cupissima teoria di morti che camminano e di uomini in fuga dalla morte. Ancora zombi, insomma. Ma soprattutto, ancora una volta, l’ennesima declinazione di un cinema irriducibile, lontano da qualunque altro. Come quello di Malick, le cui invocazioni, finalmente, tornano alla carne e al sangue della storia. O come quello di Desplechin che, con uno straordinario spiazzamento, abbandona i suoi dedalus per poggiare il suo sguardo umanissimo su Roubaix, la città natale.

Sono queste le visioni più folgoranti di questa Cannes. A cui andrebbe aggiunto un magnifico e inquieto percorso che tiene insieme Guzmán e Cavalier, Abel Ferrara, Herzog, fino all’ironia lucida e silenziosa di Suleiman. Sembra che non ci sia niente in comune tra i loro film. Si parte dal discorso più intimo, dalle confessioni a cuore aperto, per arrivare poi alle grandi questioni teoriche, storiche e politiche. Ma si tratta in ogni caso di autori che non hanno paura di confrontarsi con le forme più “piccole” e impreviste, di lasciarsi andare alle pratiche corsare e clandestine. Sono film fatti in casa o, al massimo di quartiere. È roba su commissione, sporca e irregolare. Sono sguardi esuli o che si accontentano della povertà di una grammatica base. Ma hanno la forza straordinaria di inventare il cinema dal nulla. Di riconfigurare il mondo, l’immagine della realtà e della memoria, per raccontare l’urgenza, il bisogno, la mancanza e il desiderio, l’appartenenza, la volontà. La vita.

 

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