2-5 gennaio Il cinema del CSC
2-6 gennaio Non solo attore. Omaggio a Vittorio Caprioli
8-13 gennaio Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano
Seconda parte
15 gennaio (In)visibile italiano. Le metropoli del crimine
16 gennaio Presentazione del Cofanetto Totò
17-18 gennaio Controcorrente: Lo sguardo crudele di Alberto Cavallone
19 gennaio Novant’anni di cinema. Luciano Emmer al lavoro
20 gennaio Monsieur Tati nel caos della modernità
22 gennaio L’altro Visconti
Seconda parte
23 gennaio Non solo voce. Il mito di Maria Callas
24 gennaio L’alchimia delle immagini. Il cinema di Luca Verdone
25 gennaio Cinema, storie e passioni
26-31 gennaio Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava
27 gennaio Jean Cayrol. Dalla notte e dalla nebbia
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BANDO CRITICA DIGITALE, partecipa entro il 20 febbraio!

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2-6 gennaio
Non solo attore. Omaggio a Vittorio Caprioli
Parigi. Roma. Milano. Napoli. Quattro città fondamentali per un artista e un intellettuale a tutto tondo come Vittorio Caprioli. Nasce infatti a Napoli il 15 agosto 1921. Dopo essersi diplomato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, debutta in teatro inizialmente con la Compagnia Carli-Rocca, successivamente con Sergio Tofano e la Compagnia De Sica-Besozzi-Gioi. Contestualmente al teatro (reciterà in diversi spettacoli diretti anche da Giorgio Strehler) si fa le ossa lavorando nel varietà accanto ad artisti del calibro di Totò e Alberto Sordi. All’inizio degli anni cinquanta va a Parigi con Luciano Salce ed Alberto Bonucci, sperimentando “un teatro da camera” incentrato sulla satira di costume e accompagnato da una comicità cinica e caustica. Insieme a Bonucci e a Franca Valeri fonda il Teatro dei Gobbi. A Roma, accanto all’attività teatrale, lavora nel cinema e nella televisione con registi del calibro di Fellini, Gentilomo, Emmer, Blasetti, Rossellini, Monicelli, ma anche Malle, Godard. Come attore ha attraversato il cinema d’autore (è nel cast del film di Bernardo Bertolucci La tragedia di un uomo ridicolo) così come quello di genere, spesso relegato in ruoli da caratterista, riuscendo sempre e comunque a regalare dei ritratti, dei personaggi indimenticabili attraverso una sfumatura nel tono della voce, un tic, un semplice gesto (straordinarie le sue interpretazioni nei film di Fernando Di Leo). Ma Vittorio Caprioli, da grande uomo dello spettacolo, non è stato solamente un ottimo attore dalla versatilità inarrivabile, ma anche un grande regista. Un libro esemplare, Vittorio Caprioli regista (Falsopiano, Alessandria, 2003), a cura di Fabio Francione e Lorenzo Pellizzari, pubblicato in occasione della quinta edizione del Lodi Città Film Festival 13-20 ottobre 2003, all’interno del quale è stata organizzata una pionieristica retrospettiva dedicata all’attore-regista, gli ha reso finalmente giustizia, come scrivono i curatori del volume: «le notizie biografiche basterebbero da sole a confermare la centralità di Vittorio Caprioli nel panorama artistico ed in particolare teatrale e cinematografico italiano di almeno tre decenni del ’900 (1950 – 1980). Al contrario l’eclettismo dell’artista, totale e rigoroso, mai dispersivo (o cinema o teatro o televisione, mai tutto insieme), ha relegato per pregiudizi ideologici e formali ai margini della critica le sue regie cinematografiche». Tutte le citazioni sono state tratte dal presente volume. L’omaggio a Caprioli proseguirà nella retrospettiva Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano, avendo l’attore ha recitato in ben quattro film di Blasetti: Altri tempi, Tempi nostri, Io, io, io… e gli altri e La ragazza del bersagliere, proposti nel corso della retrospettiva. Nel corso della tavola rotonda di mercoledì 9 gennaio, dedicata a Blasetti, il figlio Carlo traccerà un ricordo del padre.
Un ringraziamento particolare va a Rai Direzione Teche, Broadmedia Service e a Fabio Francione e Carlo Caprioli.
8-13 gennaio
Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano
Seconda parte
Seconda parte della retrospettiva dedicata ad Alessandro Blasetti nel ventennale dalla morte. Dopo aver proposto, a settembre, i film e i documentari diretti dal regista dal 1929 al 1945, periodo contrassegnato da una varietà di temi e di stili, che Blasetti riuscì sempre a infondere anche in opere realizzate in condizioni sfavorevoli, nella seconda parte prendiamo in considerazione il periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Il periodo del neorealismo e della commedia all’italiana, ma anche dei film ad episodi, dei mondo-movie, delle maggiorate, del divismo e del boom, l’ultima grande stagione del cinema italiano, nella quale Blasetti si pose sempre come un innovatore, lanciando attori, generi, perfino mode. È il Blasetti meno conosciuto, ma che con grande determinazione porta avanti una sua idea di cinema, mettendo la sua arte e la sua esperienza al servizio delle nuove leve, come fece per anni sui banchi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Blasetti, soprattutto, sperimenta, osando, spesso, l’impossibile (paradigmatica fu la vicenda di Europa di notte, rifiutato da tutti i produttori) e destrutturando il plot narrativo con un linguaggio del tutto innovativo (la straordinaria modernità di Io, io, io… e gli altri), che pochi gli riconoscono.
La retrospettiva, organizzata dalla Cineteca Nazionale, doveroso omaggio a uno dei padri fondatori del Csc, offre l’occasione per una riflessione sull’opera complessiva del regista, troppo presto dimenticato. Forse per la sua personalità dirompente che ha lasciato nel cinema italiano un segno inconfondibile, tracciando traiettorie e indirizzi, poi seguiti e imitati da tutti, ma di cui, evidentemente, non è facile ammettere la paternità. In realtà Blasetti non solo è stato il primo grande Maestro del cinema italiano, ma ne è stato anche uno dei padri fondatori, a partire dal film-spartiacque Sole, fino alle ultime prove degli anni Sessanta, sempre orientate dal desiderio di trovare nuovi orizzonti. La figura di Blasetti sarà approfondito nella tavola rotonda del 9 gennaio, alla presenza della figlia Mara e di critici e uomini di cinema che lo hanno conosciuto e apprezzato.
martedì 15
(In)visibile italiano. Le metropoli del crimine
Nuovo appuntamento con (In)visibile italiano e la riscoperta di film del cinema italiano meno conosciuti, ma meritevoli di essere (ri)visti. Questo mese proponiamo tre film dell’anno di grazia (per il cinema italiano) 1976, in pieno boom del poliziesco all’italiana, quando il disagio sociale trova immediata espressione in pellicole crude ed efferate, ma spesso venate da una malinconia e da un’ironia, meritevoli di maggiore considerazione. Com’è il caso dei film proposti in quest’occasione, in cui giungono gli echi del cinema d’oltreoceano (la Cia in Genova a mano armata, la mafia americana in Con la rabbia negli occhi), modello di riferimento per storie di pura azione. E il segno del cinema americano è ancor più presente nel cast dei film, interpretati da star hollywoodiane come Yul Brinner o da vecchie glorie come Mel Ferrer e Martin Balsam o giovani rampanti come Tony Lo Bianco, e nell’occhio della macchina da presa che ritrae le metropoli del crimine, Genova, Roma e Napoli, in modi completamente differenti da quelli abituali. Le tre città svelano i loro angoli più reconditi al servizio di storie avvincenti, dense di colpi di scene: ultimi fuochi di un cinema italiano che stava perdendo la capacità di tenere lo spettatore con il fiato sospeso.
ore 18.00
Genova a mano armata (1976)
Regia: Mario Lanfranchi; soggetto e sceneggiatura: M. Lanfranchi; fotografia: Federico Zanni; musica: Franco Micalizzi; montaggio: Daniele Alabiso; interpreti: Tony Lo Bianco, Adolfo Celi, Maud Adams, Howard Ross [Renato Rossini], Fiona Florence [Luisa Alcini], Yanti Somer; origine: Italia; produzione: Intervision; durata: 93’
Un agente radiato dalla Cia apre a Genova un’agenzia investigativa e viene incaricato di indagare sulla morte di un armatore. La sua vita è appesa a un filo. Secondo Marco Giusti «il più fine dei poliziotteschi girati a Genova». Grandi duetti fra Tony Lo Bianco e Adolfo Celi in un film che restituisce interamente il fascino cinematografico di Genova. Lanfranchi, grande regista di opere liriche, lasciò un segno anche nel cinema con questo film e con il western Sentenza di morte.
ore 20.00
Con la rabbia agli occhi (1976)
Regia: Anthony M. Dawson [Antonio Margheriti]; soggetto: Pier Luigi Andreani, Leila Bongiorno; sceneggiatura: Guido Castaldo, Giacomo Furia; fotografia: Sergio D’Offizi; musica: Guido e Maurizio De Angelis; montaggio: Mario Morra; interpreti: Yul Brinner, Massimo Ranieri, Barbara Bouchet, Martin Balsam, Giancarlo Sbragia, Giacomo Furia; origine: Italia; produzione: Giovine Cinematografica; durata: 98’
Un killer della mafia viene mandato dall’America a Napoli per eliminare un boss. Un giovane che vive di espedienti fa di tutto per lavorare con lui. «L’idea di inserire Y. Brinner e M. Ranieri in una storia di mafia sembra azzardata, ma funziona. Il mestiere di A. Dawson (all’anagrafe Antonio Margheriti) tiene in piedi il film» (Morandini). «Antonio aveva un ottimo ricordo di questo film, di cui teneva un manifesto 140 x 70 incorniciato nel suo studio. Un manifesto con il titolo inglese “Death Rage”, perché una sola cosa non gli era mai piaciuta e non gli andava giù, la scelta del titolo da parte del distributore italiano: “Un titolo privo di senso, deviante e completamente fuori film…” diceva, e scherzosamente, quando ne parlava, aggiungeva: “Con la rabbia agli occhi, la puzza al naso, e le pezze al cu….”, ma Antonio amava questo suo figliolo, ed era orgoglioso di averlo fatto, anche se per la sua natura modesta e scherzosamente denigratoria del suo lavoro, lo prendeva in giro» (Edoardo Margheriti dal sito www.antoniomargheriti.com).
ore 21.45
L’avvocato della mala (1976)
Regia: Alberto Marras; soggetto: A. Marras; sceneggiatura: A. Marras, Vittorio Vighi, Claudio Fragasso, Antonio Cucca; fotografia: Angelo Bevilacqua; musica: Ubaldo Continiello; montaggio: Amedeo Giomini; interprete: Ray Lovelock, Mel Ferrer, Lilli Carati, John Steiner, Umberto Orsini, Gabriele Tinti; origine: Italia; produzione: T.D.L. Film, Angry Film; durata: 95’
A Roma un giovane avvocato, costretto a lavorare per un boss, si trova implicato in loschi affari. Alberto Marras, al suo esordio come regista, era un direttore di produzione, molto attivo nel cinema di genere (Il poliziotto è marcio di Di Leo, Uomini si nasce, poliziotti si muore di Deodato, di cui è coautore del soggetto). «Unico, interessantissimo (per noi) film di Alberto Marras. […] Da trovare. In lavorazione come L’avvocaticchio (sarebbe stato un grandissimo titolo)» (Giusti).
mercoledì 16
Presentazione del Cofanetto Totò (Minerva Rarovideo)
Altra occasione per riparlare e rivedere un comico unico come Totò. Il pretesto è la presentazione di un cofanetto contenente tre film con Totò per la regia del mai troppo compianto Fernando Cerchio. Studente dell’Accademia di Belle Arti, s’interessa di cinema partecipando a ben quattro edizioni dei Littoriali con film sperimentali realizzati a passo ridotto. Nel 1936 Cerchio realizza un breve film a disegni animati: Notturno. S’iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia, frequentando i corsi di regia tenuti da Alessandro Blasetti e contemporaneamente collabora a riviste specializzate (fra cui «Cinema»). Dal 1938 al 1943 lavora come montatore presso l’Istituto Luce e dirige alcuni documentari. Il suo primo lungometraggio lo realizza durante il periodo di Salò (La buona fortuna). Nell’immediato dopoguerra alterna l’attività di documentarista (suo è Aldo dice 26 x 1, documentario sulla vita partigiana) a lungometraggi a soggetto di svariati genere: da Gente così (1949), in cui tra gli sceneggiatori appare anche Giovanni Guareschi, che anticipa per estetica e contenuti la saga di Don Camillo, e Il bivio (1950), uno dei primi polizieschi italiani. I tre film interpretati da Totò contengono un’inconsueta ambientazione, estranea al mondo del grande comico napoletano. In Totò e Cleopatra (1963), Totonno (Totò), a causa della sua incredibile somiglianza con Marco Antonio, si trova incastrato tra Cleopatra e le mille peripezie dell’Impero Romano. Il dvd contiene come extra l’intervista a Fernando Cerchio. Totò contro Maciste (1962) è invece una parodia del genere peplum allora molto in voga e vede duettare il grande comico napoletano con un altro attore brillante partenopeo, Nino Taranto, già suo partner in altre occasioni. Il film, diretto da Fernando Cerchio, che del peplum fu uno dei principali artefici, racconta la storia della sfida tra Totenkamen e Maciste che sta invadendo la città di Tebe. Irresistibili alcuni momenti del film in cui Totò, alla corte del faraone, deve dimostrare di essere l’uomo più forte del mondo. Totò contro il pirata nero (1964) è una parodia del film d’avventura, pieno di gag surreali, e ottimo pretesto per consentire a Totò di scatenarsi con la sua verve e la sua gestualità irrefrenabile. Oltre all’imponente Mario Petri nei panni del cattivo pirata, di contorno c’è una schiera di collaudate spalle di Totò: Giacomo Furia, Aldo Giuffré e il fido Mario Castellani. Per Totò contro Maciste e Totò contro il pirata nero ci sono come extra due interviste ad Aldo Giuffré.
Oltre alla presentazione del cofanetto con i due studiosi, esperti di Totò, Goffredo Fofi e Tatti Sanguinetti, è prevista una proiezione di un film particolare come La mandragola (1965) di Alberto Lattuada con un inedito Totò, di provenienza della Cineteca Nazionale, e, a sorpresa, del dvd di uno dei tre film del cofanetto targato Minerva Raro Video.
ore 17.30
La mandragola (1965)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dalla commedia omonima di Niccolò Machiavelli; sceneggiatura: Luigi Magni, Stefano Strucchi, A. Lattuada; fotografia: Tonino Delli Colli; musica: Gino Marinuzzi jr.; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy, Jean-Claude Brialy, Romolo Valli, Armando Bandini, Totò; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, Lux C.C.F.; durata: 102’
«Dalla commedia in 5 atti (1518) di Niccolò Machiavelli: per ottenere l’amore della bella Lucrezia, l’astuto Callimaco si fa passare, con l’aiuto del mezzano Ligurio, per un famoso dottore e convince messer Nicia, suo marito, che avrà un figlio se berrà una pozione di mandragola (o mandragora, pianta delle Solanacee), ma che avrà morte certa se giacerà con lei subito dopo: bisogna trovare un poveraccio (che sarà egli stesso, travestito) che si presti all’opera. Con un occhio alla moda “boccacesca”, quella del film in costume un po’ sporcaccione, degli anni ’60 e l’altro (quadrato) alla razionalità di Machiavelli, Alberto Lattuada ha fatto un lavoro di discreta eleganza e di raffinato erotismo. Spiccano tra i personaggi il Nicia di Romolo Valli cui il regista e i suoi sceneggiatori prestano un’ambigua consapevolezza, inesistente nel testo originale, e un inedito Totò come fra’ Timoteo» (Morandini).
ore 19.00
Proiezione a sorpresa di uno dei tre film del Cofanetto Totò (Minerva Rarovideo)
Ingresso gratuito
ore 21.00
Presentazione del Cofanetto Totò con Goffredo Fofi e Tatti Sanguinetti
17-18 gennaio
Controcorrente: Lo sguardo crudele di Alberto Cavallone
Se attualmente esiste una rivista cinematografica che è riuscita a far riemergere, con pignola attenzione filologica, un certo cinema italiano ingiustamente sommerso, il suo nome è «Nocturno Cinema». Uno dei suoi cavalli di battaglia è stata la riscoperta di un cineasta molto particolare ed eccentrico come Alberto Cavallone, fino ad allora ingiustamente sottovalutato o nel peggiore dei casi dimenticato. A riassumere la sua estetica cinematografica e a finalmente rendere giustizia al suo cinema sono stati i fondatori di «Nocturno Cinema», Manlio Gomarasca e Davide Pulici: «Per Alberto Cavallone lo sguardo è crudele, che significa essere spietati nel mettere in scena le contraddizioni della realtà, nell’accettare in maniera totale gli stimoli feroci di ciò che ci circonda adeguando ad essi un linguaggio cinematografico che si fa omogeneo a quel che racconta: crudo, provocatorio, esasperato, ma capace altresì di recuperare la limpida purezza di sguardo del fanciullo che per Cavallone coincide sempre con la dimensione altra, e sacra, della realtà». Da qui il titolo di questo breve omaggio attraverso la proiezione delle sue pellicole più rare (ma quasi tutto il suo cinema è pressoché invisibile) e una tavola rotonda per far tornare alla luce, nell’antica accezione “cinetecaria”, opere cinematografiche complesse e indefinibili. La rassegna Controcorrente: Lo sguardo crudele di Alberto Cavallone, curata dalla Cineteca Nazionale insieme a Manlio Gomarasca e Davide Pulici («Nocturno Cinema»), vuole essere l’inizio di una serie di appuntamenti dedicati a cineasti dallo sguardo cinematografico eccentrico, che «hanno vissuto nello stesso periodo, che significa essere parte culturale e sociale del cinema italiano degli anni ’70 e ’80, anni in cui il cinema era ancora un mezzo di comunicazione di massa, capace di incidere nella realtà, di far sognare e divertire». Alla tavola rotonda del 17 gennaio parteciperanno Maria Pia Luzi alias Jane Avril, compagna per molti anni di Alberto Cavallone nonché protagonista di Afrika, Zelda e Spell, Maurizio Centini, direttore della fotografia di gran parte dei film di Alberto, da Le salamandre a Blue Movie, Pier Latino Guidotti, produttore di Afrika e amico di Cavallone, e per finire Danilo Micheli, l’interprete di Blow Job. Quasi tutte le citazioni sono state tratte da Nocturno dossier. Controcorrente: Il cinema milanese di Eriprando Visconti, Cesare Canevari, Alberto Cavallone, tranne la scheda del film Blow Job, tratta dal numero 65 di «Nocturno Cinema», dicembre 2007.
giovedì 17
ore 17.30
Blue Movie (1978)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Maurizio Centini; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Danielle Dugas, Claude Maran, Dirce Funari, Leda Simonetti, Giovanni Brusatori; origine: Italia; produzione: Anna Cinematografica; durata: 90’
«Claudio è un fotografo la cui mente è rimasta segnata dagli orrori cui ha assistito durante la guerra, vive in una dimensione allucinata dove realtà e fantasia convivono senza soluzione di continuità. […] Blue Movie, fin dal titolo, esplicita i suoi riferimenti: da una parte Blue Movie di Andy Warhol […], dall’altro Sweet Movie di Dusan Makavejev. Il sesso, anzi il porno nell’epoca della riproducibilità tecnica e in quella del consumismo. […]. Sui titoli di testa, viene enunciata l’equivalenza tra scatti della macchina fotografica e spari di pistola: la violenza della visione, del sesso, della società capitalista. Neanche Blow-up e Zabriskie Point sono passati invano. È un soggetto più interessante, si chiede il protagonista, una lattina di Coca-Cola o una donna nuda?» (Pezzotta).
Versione in lingua inglese
ore 19.10
Spell (Dolce mattatoio, 1977)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Giovanni Bonicelli; musica: Claudio Tallino; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Jane Avril, Martial Boschero, Angela Doria, Emanuele Guarino, Macha Magall, Aldo Massasso; origine: Italia; produzione: Stefano Film; durata: 98’
«Spell rappresenta la “summa” dell’opus di Cavallone, il suo lancinante punto di non ritorno: Spell (Dolce mattatoio) come Salò o le 120 giornate di Sodoma. Si sa dell’amore del regista per Isidore Ducasse, il conte di Lautréamont, autore de I canti di Maldoror, l’opera dalle cui nere pagine è nato il Surrealismo: ecco, ad un primo acchito (distratto) la visione di Spell può provocare quella sensazione di stordimento che si prova sfogliando il suddetto libro. […] Ma lo spettatore che già conosce il suo modus operandi troverà sempre un punto d’appoggio, una guida che lo condurrà fra le macerie, perché Cavallone è regista austero e lucidissimo. […] Il disincanto di Marcuse, l’occhio di Bataille, la fisicità radicale della body art: tutte frecce nell’arco di Alberto Cavallone, entomologo di una brulicante società che ha scelto un modesto declino da Basso Impero come proprio mortuario vessillo. A commento di questa “piccola apocalisse” il vitreo sguardo di un gallo (un rimando al silenzio della giraffa che chiude Il fantasma della libertà di Buñuel?) costretto ogni mattina a dare inizio alle danze» (Bruni).
ore 21.00
Tavola rotonda moderata da Manlio Gomarasca e Davide Pulici con Jane Avril, Maurizio Centini, Pier Latino Guidotti, Danilo Micheli
Nel corso della tavola rotonda verrano presentati il nuovo numero della rivista «Nocturno cinema» e il dvd della Next Video di Spell (Dolce mattatoio).
ore 22.00
Blow-Job – Soffio erotico (1980)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Maurizio Centini; musica: Ubaldo Continiello; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Danilo Micheli, Anna Massarelli, Anna Bruna Cazzato, Mirella Venturini, Valerio Isidori, Antonio Mea; origine: Italia; produzione: Anna Cinematografica; durata: 78’
«Quante aspettative, quante curiosità attorno a Blow Job nei pomeriggi consumati in casa a bere liquori scadenti con Alberto Cavallone. […] Certo, la locandina pittorica era allucinante: due grosse labbra rosse e carnose dentro le quali, stilizzate, le figure di un uomo e una donna impegnati nella pratica sessuale evocata nel titolo. Alberto ci disse che il film era poverissimo, che aveva avuto dei problemi produttivi e aveva cambiato direzione durante le riprese […] ma che fonte di ispirazione era stato nientemeno che Carlos Castaneda e che il titolo pensato in origine era La strega nuda. […] Finalmente grazie alla Cineteca Nazionale […] abbiamo toccato con mano la vera consistenza di Blow Job […]. Consistenza un po’ spugnosa che rende difficile vedere e seguire il film di Alberto […]. Ovviamente la copia censura depositata in Cineteca è la versione soft del film epurata dalle scene di sesso esplicito. […] Perché se anche è vero che il film di Alberto è sicuramente un gradino sotto alle sue precedenti opere […], regala alcuni momenti di emozione» (Gomarasca).
Ingresso gratuito
venerdì 18
ore 18.00
Le salamandre (1969)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Massimo Centini; musica: Franco Potenza; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Erna Schurer [Emma Costantino], Beryl Cunningham, Anthony Vernon [Nino Casale], Tony Carrel, Michelle Stamp, Alain Kalsj; origine: Italia; produzione: Vega Cinematografica, Star Film; durata: 91’
«Tre vite alla deriva: la fotografa svedese Ursula, la fotomodella brasiliana Uta Juarez, il medico francese Jon Duval. […] È il 14 febbraio 1968 quando il regista Alberto Cavallone (soggettista-sceneggiatore-regista di tutti i suoi film), precursore di almeno dieci anni per temi e tecniche di ripresa, avvia un’opera ambiziosa, innovativa per linguaggio e immagine cinematografica. La storia, d’urto e scabrosa per quegli anni, affronta problemi d’etnia e sesso, argomenti allora difficili da far digerire. Il primo ciak de Le salamandre si batte a Sidi Bousaid (Tunisia, terra a Cavallone particolarmente cara). Titolo provvisorio C’era una bionda, troupe ridotta, macchina a mano, come sempre. Attraverso una vicenda sottilmente ambigua nei rapporti fra i sessi, Cavallone visualizza nel discorso e nella psiche dei protagonisti il contrasto tra differenti mondi e culture» (Luzi).
ore 20.40
Afrika (1973)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Massimo Centini; musica: Franco Potenza; montaggio: Anita Cacciolati; interpreti: Ivano Staccioli, Andrea Traglia, Jane Avril,Andrea Truglio, Kara Donati, Debete Eshepeto; origine: Italia; produzione: Castle Film; durata: 89’
«Cavallone si destreggia molto bene nello sfondo esotico, mostrando l’incidenza “afrikana” decisiva sul comportamento psicologico dei protagonisti. Un certo alone misterioso circonda, volutamente, il protagonista. Ciò che si ottiene nella sfera del “magico quotidiano” va tuttavia a scapito della chiarezza» (Bianchi). «Eppure il modo più corretto di guardare il film è forse quello di inserirlo nel contesto di sguardo dell’intera filmografia di Cavallone […]. Allora sì che Afrika pone in luce aspetti curiosi e vettori autoriali tutt’altro che convenzionali. Il regista di Spell si trova ai quasi albori di un’epoca che proviene da una turbolenza – anche cinematografica – irresistibile e si affaccia su anni ancora più infiammati e infiammanti. E sa che non è possibile prescindere né dall’una né dagli altri. Fa i conti dunque con il mondo movie e la libertà sessuale di parola […], incluso anche il relativo esibizionismo esclamativo, e gira un drammone mélo che sta a metà strada tra il trauma e la “pena”. Però non si adagia su nessuno dei binari prestabiliti» (Bocchi).
ore 22.30
Zelda (1974)
Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia: Maurizio Centini; musica: Marcello Giombini; montaggio: A. Cavallone, Claudio Orecchia; interpreti: Jane Avril, James Harris [Giuseppe Mattei], Franco Gonella, Margareth Keil, Halina Kim, Debebe Eshetu; origine: Italia; produzione: G.I.T. International Film; durata: 85’
«Stretto com’è tra due film fondamentali come Afrika e Spell, Zelda è l’ennesimo tassello di un cinema che non assomiglia a nessun altro, ma testimonia anche di un cineasta sempre meno interessato a racchiudere le proprie esigenze creative in un formato narrativo ragionevolmente commerciale. La struttura è ancora legata agli stilemi dell’erotico morboso, ma la tentazione di rompere gli schemi è palpabile, ancora più che in Afrika. Dal film precedente, Zelda ripropone la struttura narrativa: un evento delittuoso iniziale (l’ex pilota automobilistico James Harris, ridotto su una sedia a rotelle dopo un tentativo di suicidio, viene trovato morto assieme all’amante Halina Kim), e una serie di flashback, a mostrare un passato fatto di molteplici e cangianti alleanze sessuali che fanno capo al defunto e alla moglie Zelda (Jane Avril), “allo stesso tempo colomba, serpe e puttana”. […]. Zelda è girato con una certa eleganza, e contrassegnato dal tipico montaggio nervoso e sincopato dell’autore, mentre il passato da documentarista di Cavallone viene fuori nelle sequenze delle gare» (Curti).
sabato 19
Novant’anni di cinema. Luciano Emmer al lavoro
Auguri a Luciano Emmer, che proprio in questo giorno festeggia un compleanno importante e ha deciso di farlo in compagnia nostra e di altri amici.
Il modo più vero per rallegrarsi con lui è quello di confrontarsi con i suoi ultimi lavori, La musa pensosa e Le pecore di Cheyenne, ulteriori esempi di curiosità e vitalità, che sono poi due delle condizioni fondanti del suo “fare cinema”. Tra le innumerevoli cose che si potrebbero dire del cinema di Emmer (e che potremo discutere direttamente con lui…) vogliamo solamente ricordare la sua voglia e la sua capacità di raccontare delle storie, sempre e comunque e dovunque: i suoi primi cortometraggi sono del 1938 (e ama chiamarli “storie dipinte”); il documentario (d’arte e di costume, di cui diventa uno dei massimi esponenti in Italia) è un pretesto per l’osservazione di una “condizione umana” sempre più complessa; i suoi Carosello (di cui è praticamente l’inventore…) sono essenze di cinema di genere, “storielle” essenziali; i suoi film a lungometraggio (e qui sono permesse grandi storie, corali, affollate…) sono sempre in bilico tra un cinema classico assimilato con naturalezza disarmante ed uno spirito di innovazione anarchicamente indomabile e non riconciliato.
L’omaggio è stato curato dalla Cineteca Nazionale insieme a Officina Filmclub, Fuori Orario e Il vento del cinema.
ore 17.30
Con aura… Senz’aura. Viaggio ai confini dell’arte (2003)
Regia: Luciano Emmer, Enrico Ghezzi; fotografia: Ugo Lo Pinto; musica: Stelvio Cipriani; montaggio: Francesca Bracci; voci: Giancarlo Giannini (per i versi dell’inferno di Dante), Tomoko Tanaka (per gli Haiku giapponesi); montaggio: Francesca Bracci; origine: Italia; produzione: Fuori Orario; durata: 58’
«Percorso in soggettiva per una riflessione sul significato dell’arte nell’esistenza dell’individuo. Sprofonda nel buio delle grotte di Pastena, dove la realtà è lontana ed è più forte la suggestione delle opere d’arte che incontra nel suo viaggio: le sequenze dei film che ha realizzato nel corso della sua vita si intervallano a nuove riflessioni che nascono dalle opere di altri artisti, tra cui Monet, Degas, Rembrandt, Hokusai Sonia Delaunay. Quale sia il significato dell’arte, la sua verità, rimane una domanda aperta, che non può avere un’unica risposta» (De Facendis).
Ingresso gratuito
ore 18.45
Provino Mastroianni e Bosé (1948)
Regia: Luciano Emmer; origine: Italia; produzione: Csc; durata: 7’
Provino con Marcello Mastroianni e Lucia Bosè girato al Centro Sperimentale di Cinematografia da Luciano Emmer per un film mai realizzato, che avrebbe dovuto avere come titolo La madre, tratto dal romanzo di Grazia Deledda. Il provino fu girato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, con Giulio Macchi al ciak. Il trattamento del film era stato predisposto a cura di Luciano Emmer e Sergio Amidei per la produzione Colonna Film (nel 1948), ma non ottenne l’approvazione in sede di censura preventiva.
a seguire
La ragazza in vetrina (1961)
Regia: Luciano Emmer; soggetto: Rodolfo Sonego; sceneggiatura: L. Emmer, Vinicio Marinucci, Luciano Martino, Pier Paolo Pasolini; fotografia: Otello Martelli; musica: Roman Vlad; montaggio: Emma Le Chanois, Jolanda Benvenuti; origine: Italia/Francia; produzione: Nepi Film, Sofitedip, Zodiaque Productions; durata: 92’
«La ragazza in vetrina reca i segni di una meditazione, di una ispirazione non occasionale, di un irrobustimento della vena narrativa. […] Il prologo del film, nella miniera, è dotato di un vigore drammatico, di un vigore realistico insoliti per Emmer, e costituisce forse quanto di più intenso il cinema abbia dato sull’aspro lavoro dei minatori e sulla presenza incombente, assidua della morte nei cunicoli del sottosuolo. […] Nella pittura della celebre strada delle vetrine – dietro le quali le prostitute stanno in offerta come una merce –, nello scorcio di certi locali (come quelli per uomini soli), nell’introduzione di talune antitesi (l’Esercito della Salvezza), nella definizione delle psicologie Emmer ha spiegato una lucidità di linguaggio resa più accattivante dalla discrezione, dal pudore di cui egli ha dato prova» (Castello).
ore 20.30
Bella di notte (1997)
Regia: Luciano Emmer; testo e voce: L. Emmer; fotografia: Elio Bisignani; musica: Canto della Terra di Gustav Mahler, eseguito dall’Orchestra dell’Istituzione G.P. da Palestrina di Cagliari, diretta dal Maestro Nino Bonavolontà; origine: Italia; produzione: Rai 2/Film 7 International; durata: 28’
«Film realizzato in occasione dell’apertura al pubblico della Galleria Borghese, dopo il restauro. Emmer si introduce di notte nella Galleria, e con la fioca luce di una torcia illumina le opere d’arte che incontra. È un viaggio notturno, accompagnato dalla sua voce e dai suoi commenti spontanei che dall’osservazione dell’opera traggono sempre suggestioni personali. Piuttosto che ricercare o aprire la strada a significati lontani, Emmer sembra ricercare un contatto diretto con le opere d’arte, entrando in dialogo con esse, interrogando il passato. Scipione Borghese fa da tramite a questa rêverie nocturne: è a lui che si rivolge per comprendere il segreto delle opere d’arte che emergono dal buio, suo interlocutore privilegiato nelle riflessioni suggerite dalle opere del museo» (De Facendis).
Ingresso gratuito
ore 21.00
Incontro con Luciano Emmer ed Enrico Ghezzi
ore 22.00
Racconto di un affresco (1938)
Regia: Luciano Emmer, Enrico Gras; soggetto e sceneggiatura: E. Gras; musica: L. Emmer, Tatiana Grauding, rieditato con musiche originali di Roman Vlad nel 1946; origine: Italia; produzione: Dolomiti Film; durata: 11’
«La storia di Cristo, dalla nascita alla resurrezione, narrata attraverso le fotografie Alinari degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni»(De Facendis). «Forse perché in quelle figure ho trovato non soltanto me stesso, ma soprattutto i fatti umani che ci circondano, i lineamenti spirituali del mio popolo, quello che è il suo tragico destino. Sono gli stessi volti, le stesse emozioni che ho tentato di individuare e fissare girando sulla spiaggia di Ostia la vicenda apparentemente spensierata di una Domenica d’agosto: sono quei fantasmi che sempre si muovono tra la mente e l’animo, e che determinano ancora la mia “scelta”, ciò che guiderà il mio occhio alla ricerca dei vasti campi da esplorare nel mio prossimo film» (Emmer).
Ingresso gratuito
a seguire
La musa pensosa (2007)
Regia: Luciano Emmer; montaggio e voce narrante: L. Emmer; fotografia: Ugo Lo Pinto; origine: Italia; durata: 20’
Emmer gira nel Museo Montemartini di Roma l’ideale prosecuzione del suo precedente Bella di notte; attraverso “l’incantamento” rappresentato dalla visione della statua di Polimnia, si realizza un viaggio notturno nel pensiero, scandito dalle riflessioni sulla vita e sulla morte dei grandi pensatori classici.
Ingresso gratuito
a seguire
Le pecore di Cheyenne (2007)
Regia: Luciano Emmer; soggetto, sceneggiatura e montaggio: L. Emmer; durata: 70’
Compressione dei costi, agilità di movimento, possibilità di controllo ancora più “totale”dell’intera lavorazione; questi sono i principali motivi che hanno portato Luciano Emmer a misurarsi negli ultimi anni con il supporto (e le possibilità offerte dal) digitale. Ma l’approccio al cinema (e alle storie) resta immutato: ecco quindi l'ennesima, straordinaria figura femminile del suo cinema: la pastora Cheyenne Daprà, seguita nel suo lavoro quotidiano, quattro giorni, un giorno per stagione.
Ingresso gratuito
domenica 20
Monsieur Tati nel caos della modernità
Jacques Tatischeff nasce in una famiglia d’origine russa a Le-Pecq (Seine-et-Oise), il 9 ottobre 1907. Della sua infanzia nulla da eccepire o da raccontare se non una precoce tendenza all’altezza. Pratica svariati sport (gioca nella squadra di rugby di serie A nel campionato francese) ed è proprio attraverso l’attività sportiva che scopre il grande valore della comicità: intrattiene i compagni di gioco con gag e pantomime. Il successo è assicurato tanto che il giovane Jacques si trasferisce a Parigi, lavorando nei cabaret e specializzandosi in mimica e varie acrobazie. Il motivo ispiratore di tante gag è la vita quotidiana con i suoi ritmi nevrotici, che sarà la base programmatica di tutti i suoi film: «Non sono nemico della modernità, figuriamoci. Sono nemico dei programmatori della modernità. Quello che non mi va bene, quello che stona, è il rapporto uomo-ambiente. Io dico che l’uomo non è al passo dei tempi, non è ancora preparato a vivere il futuro che gli stanno facendo vivere. Dico che esiste una frattura tra quello che siamo realmente e quello che vogliono farci essere. Allora l’uomo ha un solo mezzo per reagire: interrompere il contatto tra progresso tecnico e umori spontanei. Il risultato è di una ineffabile comicità. Liberando questa comicità, l’uomo finisce per prevalere sulle cose». Da qui la nascita del personaggio stralunato e impassibile di Monsieur Hulot, che, come scrive giustamente Alessandro Melis, rappresenta una «maschera tragicomica di magra essenzialità: impermeabile, cappello, pantaloni un po’ corti e immancabili pipa e ombrello. Hulot è “straniero” nella macchina del mondo, borbotta senza parlare, cammina senza capire, il suo sguardo incredulo davanti al meccanismo incomprensibile della modernità è un punto di domanda lasciato senza risposta. Il bersaglio della sua satira, mai crudele, sempre un po’ amara, è la Francia del dopoguerra, ossessionata dalla modernizzazione». Senza contare i cortometraggi, “monsieur Tati” ha realizzato, nell’arco di circa trent’anni, “solamente” sei film. Il motivo? «Non posso fabbricare film come panini. Non sono un fornaio. Se girassi spesso, dovrei senz’altro lamentarmi anch’io di un attore, di una storia, di un budget che mi sarebbero imposti» (dichiarazioni tratte da Roberto Nepoti, Tati, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1979). Jacques Tati: un comico ma anche un autore.
ore 18.00
Jour de fête (Giorno di festa, 1949)
Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e dialoghi: J. Tati e Henri Marquet con la collaborazione di René Wheeler; fotografia: Jacques Marcanton e Marcel Franchi; musica: Jean Yatove; montaggio: Marcel Moreau; interpreti: J. Tati, Guy Decomble, Paul Frankeur, Santa Relli, Maine Vallée, Delcassan; origine: Francia; produzione: Cady-Films; durata: 90’
«Tati, alla fine degli anni Quaranta, riesce a resuscitare il film comico, non solo in Francia ma anche in Europa. Dopo L’arroseur arrosé e le esperienze francesi di Max Linder, il burlesque aveva attraversato l’oceano e sembrava non volesse più tornare nel vecchio continente. In Giorno di festa, invece, il gag visivo torna prepotentemente in primo piano: i giochi di gambe del portalettere Francois sono degni dell’agilità corporea di un Chaplin, la sua faccia impassibile e velata di tristezza non è lontana da quella di Buster Keaton (Hulot, il successivo protagonista dei film di Tati, gli assomiglierà ancora di più). […] È una commedia nuova, realistica, che non tende soltanto a far ridere lo spettatore, ma si burla dei piccoli “tic” del francese dopo la Seconda Guerra Mondiale» (Emiliani). Premio internazionale alla sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia del 1949.
ore 20.00
Playtime (Playtime – Tempo di divertimento, 1967)
Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e dialoghi: J. Tati, con la collaborazione di Jacques Lagrange; dialoghi inglesi: Art Buchwald; fotografia: Jean Badal; musica: Francis Lemarque; montaggio: Gérard Pollicand; interpreti: J. Tati, Barbara Dennek, Jacqueline Lecomte, Georges Montant, Reinhart Kolldehoff, John Abbey; origine: Francia/Italia; produzione: Specta-Films, Jolly Film; durata: 115’
«Monsieur Hulot alle prese con un gruppo di turisti americani in visita a Parigi. Una serie di incidenti trasforma la serata dell’inaugurazione di un locale nella demolizione di un cantiere. È, anche per l’alto costo, il film più ambizioso di Jacques Tati […], quello in cui spinge alle estreme conseguenze la sua comicità di osservazione e la capacità di chiudere in una sola inquadratura una grande molteplicità di informazioni. È il film – girato in 70 mm – in cui Tati ha più sopravvalutato l’intelligenza del pubblico e la capacità di attenzione dello spettatore. Una sconfitta che gli fa onore, ma che gli tribolò gli ultimi 15 anni. Inadatto al piccolo schermo. […] Rivisto con il senno di poi, acquista un valore profetico come satira della globalizzazione a tutti i livelli: Tati ha messo in immagini la crisi spirituale del suo secolo» (Morandini). Truffaut parlò di «un film che viene da un altro pianeta… l’Europa del 1968 filmata da un Lumière marziano». «Tati volle costruire un’autentica città del futuro, Tativille, da trasformare in seguito in un centro (mai realizzato) di produzione cinematografica. Altissimi i costi (tra l’altro il regista volle girare in 70mm con un sonoro multipiste), scarsi gli incassi» (Mereghetti).
ore 22.00
Trafic (Monsieur Hulot nel caos del traffico, 1971)
Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e dialoghi: J. Tati, con la collaborazione di Jacques Lagrange; fotografia: Edward Van Den Enden, Marcel Weiss; musica: Charles Dumont; montaggio: Maurice Laumain, Sophie Tatischeff; interpreti: J. Tati, Maria Kimberly, Marcel Fraval, Honoré Rostel, Tony Knepper; origine: Francia/Italia; produzione: Films Corona, Films Gibé, Selenia Cinematografica; durata: 97’
«Neppure la precaria condizione finanziaria ereditata da Playtime indusse Tati a rinunciare al principio del cinema d’autore. […] Gli incassi dell’ultima opera non deponevano comunque a favore del regista e rafforzavano le abituali diffidenze dei distributori. Perciò, il creatore di Monsieur Hulot dovette rassegnarsi a più di un rifiuto, prima di trovare la produzione che gli consentisse di realizzare un nuovo film: Trafic. […] Il contenuto aneddotico è comunque analogo. Il quinto lungometraggio di tati si configura come un nuovo apologo fantatecnologico di sapore dolce-amaro sulla “civiltà industriale” e sui rapporti con l’uomo. Già ben presente in Playtime, il motivo del traffico automobilistico inteso come espressione di caos, diventa ora il tema principale del film» (Nepoti). Per il critico Bernard Cohn Trafic «racconta la vita e la morte dell’automobile. I titoli compaiono sulle immagini di una catena di montaggio e noi vediamo parecchie volte cimiteri di macchine».
lunedì 21
chiuso
martedì 22
L’altro Visconti
Seconda parte
Domenica 4 giugno 2006 la Cineteca Nazionale realizzò un breve ma sentito omaggio all’opera di Eriprando, nipote di Luchino. Ingiustamente dimenticato, i suoi film hanno rappresentato una zona di equilibrio tra il cinema d’autore e cinema di genere. Dallo zio apprese l’arte e l’eleganza della messa in scena. Discendente di una grande famiglia (i Visconti di Moldrone, ma anche Carlo Erba, il fondatore della prima ditta farmaceutica italiana, suo bisnonno), non ancora ventenne si trasferisce da Milano a Roma per lavorare nel cinema. È assistente al montaggio di Mario Serandrei, attore in Terza liceo di Emmer e in Senso dello zio Luchino. Dalla seconda metà degli anni cinquanta è assistente alla regia per Antonioni e Visconti. Scrive il soggetto de Gli sbandati insieme con Francesco Maselli e collabora a Il brigante di Castellani. Lavora molto per il teatro e la televisione ma la sua “magnifica ossessione” è la regia cinematografica. In questa seconda parte de L’altro Visconti, attraverso la proiezione di altri suoi tre film, si vuole dimostrare e sottolineare la sua personale estetica cinematografica. A proposito di “sguardi cinematografici”, Corrado Colombo, Manlio Gomarasca e Davide Pulici hanno scritto in quel pionieristico Nocturno dossier. Controcorrente: Il cinema milanese di Eriprando Visconti, Alberto Cavallone, Cesare Canevari: «Per Eriprando Visconti si parla di uno sguardo negato, dove la negazione del vedere è esplicata in una filmografia tutta all’insegna del “non è quello che sembra”, e il suo sguardo, coraggiosamente, si posiziona dove è negato guardare, dove non è bello guardare, dove non è rassicurante guardare, dove forse è impossibile guardare… perché significa guardare dentro di sé». Le ultime parole spettano all’assistente alla regia di Eriprando, Corrado Colombo, che, a proposito del suo ultimo film Malamore, vede nella distruttiva storia d’amore tra una prostituta di un bordello e un nano una metafora sulla passione che il regista ha sempre nutrito per il cinema: «Lui è il nano e il bordello è l’ambiente del cinema, apparentemente luogo di piacere ma in realtà teatro di tradimenti, insidie, raggiri, furti, popolato da donne avide e di facili costumi, falsi amici e approfittatori senza scrupoli».
ore 18.00
Strogoff (1969)
Regia: Eriprando Visconti; soggetto: dal romanzo omonimo di Jules Verne; sceneggiatura: Giampiero Bona, E. Visconti, Stefano Strucchi; fotografia: Luigi Kuveiller; musica: Teo Usuelli; montaggio: Franco Arcalli; interpreti: John Philip Law, Mismy Farmer, Hiram Keller, Delia Boccardo, Christian Marin, Donato Castellaneta; origine: Italia/Francia/Germania Occidentale; produzione: Sancrosiap, Films Corona, CCC Filmkunst, Studija Za Igralni Filmi; durata: 106’
«Dal Turkestan le orde tartariche si stanno riversando impetuosamente contro i presidi militari dello Zar di tutte le Russie; Michele Strogoff, romantico ufficiale di Pietrogrado, viene incaricato di un viaggio, nella avventurosa missione di avvertire dell’imminente attacco il granduca di Irkuysk che governa le selvagge lande della steppa siberiana. […] Spostando dal primo al secondo Ottocento la scena temporale del racconto scritto da Jules Verne sulla scia del folclore popolare russo rivisitato da Gogo’l in Taras Bulba, Visconti compie un’ulteriore effrazione letteraria tesa a un avvicinamento ideologico dell’immaginaria trama del “Corriere dello Zar” allo spirito contemporaneo. […] Ed è chiaro che al regista interessa misurarsi con il romanzo non tanto per una semplice trasposizione, ma per trasformare il potenziale letterario di un romanzo ottocentesco con quello filmico in cui le idee sull’uomo, i rapporti, la società si sono profondamente modificate e un ritorno all’infanzia dell’esperienza è puramente illusoria se non nella mistificazione» (Guastella).
ore 20.00
Oedipus Orca (1977)
Regia: Eriprando Visconti; soggetto e sceneggiatura: E. Visconti, Roberto Gandus; fotografia: Blasco Giurato; musica: James Dashow; montaggio: Kim Arcalli; interpreti: Rene Niehaus, Piero Faggioni, Miguel Bosè, Gabriele Ferzetti, Michele Placido, Carmen Scarpitta; origine: Italia; produzione: Serena Film 75; durata: 97’
Dopo l’esperienza del sequestro, Alice stenta a ritrovare il proprio equilibrio in famiglia. La situazione precipita quando la ragazza scopre che sua madre l’ha avuta da una relazione clandestina. Alice parte così alla ricerca del vero padre. Seguito del fortunato La orca (1976), costato 40 milioni di lire (20.000 euro!), incassa più di un miliardo e mezzo (750.000 euro). Per Eriprando Visconti «è un riscatto personale e non fa fatica a montare il seguito. Prende le parti di storia tagliate, aggiunge e riscrive alcune scene, e così nasce Oedipus orca. Il proposito del secondo film consiste nel creare una parte complementare dove Alice vive un’esperienza altrettanto drammatica all’interno della famiglia. Tra i due film c’è uno strano rapporto. […] Da un film fenomenologico che proponeva un’analisi della vicenda di tipo marxista, Visconti passa a un film psicoanalistico dove il nume diventa Freud […]. Il senso del tempo nei due film è fondamentale. In La orca tutto vive e si consuma nel presente, è una storia che non ha passato e tanto meno futuro. Mentre Oedipus Orca, già dal titolo in latino, è un film sul passato e sul ricordo, di gusto archeologico, che scava nell’inconscio di Alice fino a far emergere l’origine del suo malessere» (Colombo).
ore 22.00
Malamore (1982)
Regia: Eriprando Visconti; soggetto e sceneggiatura: Roberto Gandus, E. Visconti; fotografia: Luigi Kuveiller; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Nathalie Nell, Jimmy Briscoe, Antonio Marsina, Remo Girone, Serena Grandi, Monica Scattini; origine: Italia; produzione: Arcana Film Produzione; durata: 98’
«“Siamo tutti nani… È che ci vuole coraggio di ammetterlo!”. Su questa riflessione Prandino costruisce quello che sarà il suo ultimo film, e non si può che leggerlo come il testamento amaro e pessimista di un intellettuale che ha perso il feeling con il resto del mondo. […] Prandino mette in scena la sua personale “recherche”, che coincide con un tuffo nel passato, negli anni della guerra 15/18, in una villa dell’Oltrepo Pavese (quella stessa che lo ospitò, ragazzo sfollato da Milano nel ’44). La storia tra il nano e la puttana diventa la metafora di un fallimento esistenziale, dove si mischiano l’incapacità di equilibrare i propri desideri con quelli altrui e il disagio di relazione e accettazione di sé. […] Il nanismo è uno stato più mentale che fisico, e l’umanità crede di sopperire alle proprie mancanze con quello che possiede: il nano è ricco e usa i soldi per farsi accettare, la donna è bella e usa il sesso per vivere, il magnaccia è simpatico e usa l’amicizia per arricchirsi. Questo è Malamore, dove c’è sempre il rovescio della medaglia, dove la parola amore si mischia con il male e la malattia, dove la passione pura degenera in possessione perversa» (Colombo).
mercoledì 23
Non solo voce. Il mito di Maria Callas
Una giornata dedicata a Maria Callas, di cui nel 2007 ricorrevano i trent’anni dalla morte, ennesima occasione per confrontarsi con una leggenda della musica e, più in generale, della storia del costume del Novecento. Accostarsi al mito della grande cantante lirica significa infatti abbracciare una storia epica: la Callas eroina di una tragedia moderna che ha inizio nella natia Grecia e la porta, come tanti emigranti, in America e poi, finalmente, in Italia, nella patria della lirica, ormai famosa, ma senza dimenticare le umili origini e i vuoti che la vita ogni giorno le ha riservato. Una storia emblematica e, nel contempo, misteriosa che, a differenza di un film a lieto fine, non si conclude con la meritata conquista della celebrità, ma porta con sé un sottofondo malinconico, il segno di un’estraneità che si palesa sempre più drammatica. Non è un caso che Pasolini le abbia affidato la parte di Medea, nella trasposizione cinematografica della tragedia di Euripide: c’è un destino nella vita della Callas che la spinge inesorabilmente verso un triste epilogo.
Italo Moscati, nel documentario che presentiamo in questo breve omaggio, ha indagato il mistero Callas partendo dalle origini e ha scavato a fondo per penetrare negli spazi concessi da un mito invadente, che obbliga qualsiasi cronista ad eccedere in grandeur per stare al passo con una vita sfumata nei fasti effimeri del jet-set. Moscati, invece, si lascia guidare dalle emozioni che la voce della Callas suscita e dal vento, il meltemi, che l’ha portata lontana dalla sua casa e dalla sua famiglia. Apolide per scelta, ma soprattutto per destino.
Nel corso dell’omaggio saranno proiettati i film Callas Forever di Zeffirelli, che immagina, più che ricostruire fedelmente, gli ultimi mesi di vita della cantante, e il citato Medea di Pasolini, altra testimonianza della sua arte, che non era racchiusa solamente nella voce ineguagliabile, ma nelle espressioni, nelle modulazioni del suo viso. Infine sarà proposto lo straordinario backstage di Medea con immagini inedite della Callas sul set del film.
ore 18.00
Callas Forever (2002)
Regia: Franco Zeffirelli; soggetto e sceneggiatura: Martin Sherman, F. Zeffirelli; fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Alessio Vlad; montaggio: Sean Barton; interprete: Fanny Ardant, Jeremy Irons, Joan Plowright, Gabriel Garko, Jean Dalric, Ignacio Paurici; origine: Italia/Gran Bretagna/Francia/Romania/Spagna; produzione: Medusa, Cattleya, Film & General Productions, Business Affair Production Ltd., France 2 Cinema, Galfin, Mediapro Pictures, Alquimia Cinema; durata: 107’
Gli ultimi tre mesi di vita di Maria Callas. Un impresario le propone un clamoroso rientro, lei sembra tentata, ma il vuoto attorno a lei è sempre più incombente. «Fondamentale lasciare a casa i pregiudizi. Zeffirelli è l’unico cineasta su questa terra che poteva tentare un film sulla Callas. Zeffirelli è anche l’autore unico del cosiddetto “zeffirellismo”, che si ama o si odia. Intensamente alimentato dal marchio spettacolare dell’allievo scenografo di Visconti, ma in questo caso così scoperto che appare teneramente “necessario”, il film dice alcune cose importanti sull’impermanenza della musica, la variabilità dell’ascolto, la riproducibilità dell’arte, l’evanescenza della voce, la decadenza della cultura del melodramma e, forse, su Maria Callas, di cui si afferra non la cronaca, ma lapilli dell’arte, del carattere, della potenza tenebrosa e greca. Fanny Ardant scrive se stessa sul corpo fotografico della Callas, accettando la sfida (immensa) del primo piano doppiato. Non è un santino. Inventando un episodio della sua vita a un anno dalla morte, nel “bicchiere mezzo pieno” Zeffirelli trova una via possibile all’impossibile» (Danese).
ore 20.00
Backstage di Medea (1969, 23’)
ore 20.30
Incontro con Italo Moscati
a seguire
Non solo voce. Trent’anni dalla morte di Maria Callas (2007)
Regia: Italo Moscati; testi: I. Moscati; montaggio: Lorenzo Ciccinato; origine: Italia; produzione: Rai – Speciali del Tg1; durata: 70’
Un racconto e un’inchiesta su Maria Callas, morta il 16 settembre 1977 nella sua casa di Parigi. Sono trascorsi trent’anni da una scomparsa ancora avvolta dal mistero, le circostanze non sono mai state ben chiarite: una fine improvvisa dovuta a un inesorabile malore o un suicidio, come molti giornali continuano a ricordare?
Lo special di Italo Moscati parte dalla morte della Callas, e in particolare dal lancio delle ceneri della cantante nel Mare Egeo secondo la precisa disposizione della cantante, per riesaminare una biografia sempre colma d’interesse e per cercare oggi il senso dell’esistenza della Callas a tanta distanza di tempo dalla sua scomparsa.
«Mentre Maria prende parte alle riprese di Medea di Pier Paolo Pasolini, a un giornalista che le domanda come sarà la “sua” Medea lei risponde come se fosse stupita di sentirsi porre la domanda: “Ma come Medea”; intende dire che non tradirà il personaggio della tragedia di Euripide, gran greco come lei. Poi, il giornalista continua l’intervista e le chiede: “Sarà una Medea perfetta?”. Maria lo guarda ancora più stupita e risponde con un sorriso: “Io non sono mai perfetta”. […] “Perfetta”, una parola che mi ha stimolato a cercare. Non volevo fare un film doc che ripetesse fino allo sfinimento il piacere e l’emozione che la voce di Maria continua a dare a tutti, me compreso. Non volevo neppure fermarmi troppo, prigioniero del gusto del gossip, su certe parti della sua biografia e soprattutto dei suoi amori. Non volevo infine diventare prigioniero del clima che si crea intorno a un grande personaggio quando, a distanza di tempo (trent’anni nel caso di Maria), l’obbligo dei media di ricordare un idolo del pubblico può contribuire a una caccia al romanzesco, al particolare inedito non sempre davvero inedito, al gioco della scoperta o della riscoperta. Volevo raccontare e interpretare Maria secondo i venti che spirano nella sua terra di origine» (Moscati).
Ingresso gratuito
a seguire
Medea (1969)
Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: P. P. Pasolini; fotografia: Ennio Guarnieri; musiche: scelte da Pasolini con la collaborazione di Elsa Morante; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Maria Callas, Giuseppe Gentile, Massimo Girotti, Laurent Terzieff, Margaret Clementi, Sergio Tramonti; origine: Italia/Francia/Germania; produzione: San Marco Film, Les Films Number One, Janus Film und Fernsehen; durata: 110’
La tragedia di Euripide rivista da Pasolini: Medea aiuta Giasone a conquistare il vello d’oro e fugge con lui. Si sposano e hanno due figli, ma Giasone l’abbandona per unirsi alla figlia del re di Corinto. «Grazie a una presenza magnetica come la Callas, che si cala anima e corpo in un personaggio che aveva già ispirato l’opera di Cherubini, riesce ad afferrare il senso di fatalità e di orrore del mito greco. Costumi e scenografie (Pisa, Grado, Aleppo in Siria, la Cappadocia) suggeriscono, come in Edipo re, una dimensione temporale leggendaria, ben lontana dalla classicità di cartapesta cui ci ha abituato il cinema (Mereghetti).
Ingresso gratuito
giovedì 24
L’alchimia delle immagini. Il cinema di Luca Verdone
Pochi registi italiani contemporanei possono vantare una varietà di interessi e una poliedricità pari a quelle mostrate da Luca Verdone. Impossibile nel suo caso fermarsi alla scarna filmografia: tre film in vent’anni di attività, e un quarta di imminente uscita nella sale, l’attesissimo Viva Franconi!, interpretato da Massimo Ranieri, omaggio al mondo del circo (che dai tempi di Fellini e Tati attendeva un degno cantore della sua gesta). Accanto infatti all’opera cinematografica, Verdone, fin dalla laurea in Lettere moderne con una tesi sul pittore Vincenzo Camuccini, si è interessato di arte, realizzando numerosi documentari di pregevole valore (Paolo Uccello: genesi e sviluppo di un linguaggio pittorico, La scuola ferrarese del ’400, Gli Uffizi: storia di una galleria, La pittura senese del Trecento, I bamboccianti, Ottone Rosai). I suoi interessi spaziano dall’arte alla letteratura (il documentario Un ingegnere del linguaggio: Carlo Emilio Gadda, i programmi radiofonici Il segretario fiorentino su Machiavelli e Carlo Goldoni, un viaggio a Roma), passando attraverso le regie di opere liriche (L’impresario, I due baroni di Roccazzurra, Torvaldo e Dorliska, Il barbiere di Siviglia): un universo culturale che tocca tutti i campi dell’arte e che si materializza, nell’opera del regista, in un costante confronto con l’immagine, nella quale Verdone riversa le sue profonde riflessioni e le sue passioni.
Anche sul cinema ha realizzato numerosi documentari nei quali ricostruisce la storia del cinema italiano, focalizzando la sua attenzione sui movimenti e sui maestri che lo hanno maggiormente caratterizzato, ma prestando attenzione anche ai caratteristi, come Tina Pina e Titina De Filippo (Antologia del neorealismo, La commedia all’italiana, Pichissima, In cerca di Titina, Sergio Leone, La scenografia nello spettacolo cinematografico, Le immagini e il tempo: Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Alessandro Blasetti: l’estro di un regista, questi ultimi due presentati al Cinema Trevi in occasione delle retrospettive dedicati ai due grandi registi).
La retrospettiva, organizzata dalla Cineteca Nazionale, si concentra sulle regie cinematografiche di Luca Verdone, dall’esordio con il divertente Sette chili in sette giorni al personale La bocca, opera raffinata nella quale l’autore riversa la sua passione per l’arte, fino all’inedito Il piacere di piacere, film di straordinaria attualità, che indaga, fra commedia e melodramma, sui mali della società effimera contemporanea, nella quale solo ciò che è riflesso dalle mille luci della televisione attrae e seduce i giovani, come la protagonista del film, il più delle volte illudendoli. Un film controcorrente con il quale Verdone penetra nel mondo ovattato del jet-set e a colpi di fioretto infilza ad uno ad uno i falsi miti di questi anni. Questa retrospettiva è l’occasione per vederlo finalmente sul grande schermo.
ore 17.00
Sette chili in sette giorni (1986)
Regia: Luca Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, L. Verdone; fotografia: Danilo Desideri; musica: Pino Donaggio; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Renato Pozzetto, Carlo Verdone, Tiziana Pini, Silvia Annichiarico, Elena Fabrizi, Franco Diogene; origine: Cecchi Gori Silver Film; durata: 105’
Due laureati in medicina cercano di sbarcare il lunario aprendo una clinica per persone obese, nelle quali ben presto si ritrovano personaggi sopra le righe, pronti a tutto pur di soddisfare il loro appetito. Film d’esordio di Luca Verdone che ironizza sui miti della società televisiva (il corpo, la bellezza, la salute…) con esiti esilaranti.
«Mi sembrava che ci fossero anche altre strade per proporre la commedia all'italiana, così convinsi mio fratello Carlo a misurare la sua comicità su contenuti surreali e grotteschi, abbandonando la via maestra del realismo. I risultati toccavano anche la tipologia figurativa dell'assurdo. Infatti scelsi tutti attori “eccessivi” non solo per il peso ma anche per la fisionomia eccentrica dei loro volti» (Luca Verdone).
ore 19.00
La bocca (1991)
Regia: Luca Verdone; soggetto: Gianfilippo Ascione, L. Verdone; sceneggiatura: G. Ascione, L. Verdone, Dacia Maraini; fotografia: Alfio Contini; musica: Alessio Vlad, Claudio Capponi; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Tahnee Welch, Rodney Harvey, Claudine Auger, Massimo Bonetti, Monica Scattini, Valeria Cavalli; origine: Italia; produzione: Penta Film, Silvio Berlusconi Communications, Azzurra Film, durata: 104’
Una giovane restauratrice del Ministero dei Beni Culturali riceve l’incarico di restaurare un affresco nella villa di una nobile famiglia. Mentre lavora, osserva incuriosita i proprietari e le persone che gravitano attorno alla villa. Centesimo film di Alida Valli, nei panni dell’anziana contessa, data per moribonda dalla nuora desiderosa di impadronirsi del patrimonio, che invece si trasforma nel “deus ex machina” della situazione. Tra Ingmar Bergman e Arne Mattsson, in una preziosa cornice di scuola zeffirelliana, una storia in bilico tra commedia e (melo)dramma.
«Ero molto interessato a descrivere con immagini studiate, e colori vicini alla pittura, il mondo rurale toscano, che ho conosciuto bene sin dall’infanzia. Il tema sentimentale del film, una storia d’amore tra una restauratice d’arte e il giovane discendente di una famiglia aristocratica in declino, mi suggerì di approfondire la ricerca sulle corrispondenze tra immagini e suoni, in un contesto in cui la recitazione degli attori doveva misurarsi con le emozioni. Il modo giusto per ottenere questi risultati mi fu indicato da Alida Valli» (Luca Verdone).
ore 21.00
Incontro moderato da Alfredo Baldi con Luca Verdone, Gaetano Carotenuto, Callisto Cosulich, Antonia Liskova, Claudio Strinati, Alessio Vlad
a seguire
Il piacere di piacere (2002)
Regia: Luca Verdone; soggetto e sceneggiatura: L. Verdone, Alessandra D’Annibale; fotografia: Giulio Pietromarchi; musica: Alessio Vlad; interpreti: Antonia Liskova, Gaetano Carotenuto, Verushka Proshina, Marco Vivio, Mirko Petrini; origine: Italia; produzione: Cinemart; durata: 90’
Daniela, una ragazza di provincia, grazie all’amicizia con una famosa giornalista, riesce a entrare in un mondo dorato dove apparentemente le persone sono più belle e interessanti, ma in realtà si celano rancori e frustrazioni. Attraverso dolorose esperienze si compie l’educazione sentimentale della ragazza, la quale, alla fine, sarà costretta a guardare dentro di sé e a confrontarsi con una realtà meno incantata. Riuscita descrizione di un universo effimero e velleitario, alimentato da ambizioni smodate e fragili sicurezze, in cui il candore di una debuttante contribuisce a spezzare la monotonia e a ridare vitalità a figure ormai grottesche. «Ho osservato in questi ultimi anni il mondo della televisione e della pubblicità, la corsa allo sfrenato appagamento della voglia di “apparire” dei giovani che hanno avuto cattivi maestri. Questo film voleva mostrare i difetti del “consumismo” e del narcisismo di una certa parte dei giovani di oggi, vittime di modelli sbagliati. Valori come l'amicizia e l’amore sono privati delle implicazioni etiche e mi sono proposto di raccontare questi temi in una vicenda che vede l’incontro tra una ragazza giovane e una più matura trasformarsi da amicizia in rivalità. A tratti l’ho risolto con i toni della commedia, in altri momenti con quelli del melodramma» (Luca Verdone).
Ingresso gratuito
venerdì 25
Cinema, storie e passioni
Dopo La presa di Roma di Filoteo Alberini, restaurato nel 2005, la Cineteca ha compiuto nel 2007 un altro significativo passo del progetto di riscoperta e restauro del cinema muto sul Risorgimento: Il piccolo garibaldino, realizzato dalla Cines (erede della Alberini-Santoni) nel 1909.
Entrambi i restauri fanno parte di un più complessivo progetto di ricerca sul Risorgimento nel cinema, varato in collaborazione con il Servizio Biblioteca del Grande Oriente d’Italia, che, in occasione del Bicentenario di Garibaldi, ha incluso la realizzazione di un libro in edizione bilingue (italiana/inglese), Da La presa di Roma a Il piccolo garibaldino. Risorgimento, Massoneria e Istituzioni: l’immagine della Nazione nel cinema muto (1905-1909), a cura di Mario Musumeci e Sergio Toffetti, Gangemi Editore, Roma, 2007, a cui è allegato un dvd con le edizioni restaurate di entrambi i film. Il volume, oltre a dar conto del restauro delle due opere, ne analizza il senso nell’ambito del contesto culturale italiano della prima decade del secolo, anche attraverso i contributi di storici come Lucio Villari, Roberto Balzani, Giovanni Lasi, questo ultimo, già autore di un interessante studio sulle radici massoniche di La presa di Roma.
ore 18.00
La presa di Roma (1905) e Il piccolo garibaldino (1909)
ore 18.30
Presentazione del libro Da La presa di Roma a Il piccolo garibaldino. Risorgimento, Massoneria e Istituzioni: l’immagine della Nazione nel cinema muto (1905-1909), a cura di Mario Musumeci e Sergio Toffetti, Gangemi Editore, Roma, 2007.
Incontro con Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Bernardino Fioravanti, Direttore del Servizio Biblioteca del Grande Oriente d’Italia; e gli autori del volume: Roberto Balzani, Lucio Villari, Giovanni Lasi, Irela Nuñez
a seguire
La presa di Roma (1905) e Il piccolo garibaldino (1909)
ore 20.30
Viva l’Italia (1961)
Regia: Roberto Rossellini; soggetto: Antonio Petrucci, Luigi Chiarini, Sergio Amidei, Carlo Alianello; sceneggiatura: Antonello Trombadori, R. Rossellini, A. Petrucci, Diego Fabbri, S. Amidei; origine: Italia/Francia; interpreti: Renzo Ricci, Paolo Stoppa, Franco Interlenghi, Giovanna Ralli; durata: 128’
La spedizione dei Mille rievocata a cento anni di distanza. «Pur con alti e bassi di stile e di tono, nonostante i compromessi storici-ideologici di sceneggiatura, il film raggiunge i suoi scopi: togliere l’epopea garibaldina dal mito e dall’oleografia […] e dare alla rievocazione storica la spoglia concretezza di una cronaca» (Morandini).
Proiezioni a ingresso gratuito
26-31 gennaio
Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava
Un regista sempre più amato, conosciuto, studiato e, inevitabilmente, imitato. È il destino postumo di Mario Bava (1914-1980), stimato in vita più come grande direttore della fotografia e come straordinario creatore di effetti speciali (l’uomo dei trucchi…) che come abilissimo regista capace di spaziare nei generi e di lasciare un’impronta decisiva nel “cinema di paura”, nelle sue innumerevoli varianti. In realtà, come ben sottolineato dalla critica francese che ha avuto il merito di adottarlo fin dal suo magistrale esordio nel 1960 con La maschera del demonio, Bava è stato un innovatore, oltre che un maestro della luce (e delle ombre che ben si sposavano alla sua idea di cinema): ha creato generi, filoni, effetti, modellini, inquadrature, ha creato cinema, spesso dal nulla, sulle ali di una fantasia pari solo all’ingegno e a una tecnica prodigiosa. La mano di Bava si vede sempre, anche nei film girati da altri registi e ai quali ha collaborato, a volte anonimamente, perché Bava era come il Wolf di Pulp Fiction: «Sono il signor Bava, risolvo problemi», parafrasando la battuta del film di Tarantino. Si vede nei suoi film meno personali, come i western, più genialmente fantasiosi, come i film di fantascienza, nelle sue incursioni nel filone sexy (Quante volte… quella notte) o nel poliziesco (Cani arrabbiati): è una questione di luci, di esplosioni pop, di stile. Come scrive Joe Dante: «La grande influenza di Bava sui registi contemporanei è sottovalutata. Non sono sicuro che questo valga l’Europa, ma in America ci sono molti filmaker che hanno assimilato le immagini e lo stile di Bava trasferendoli in altri generi. Ovunque sia, Mario può essere contento della sua eredità». Questa e quasi tutte le citazioni contenute nelle schede sono tratte dal bel volume Kill Bill Kill! Il cinema di Mario Bava, curato da Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni (edizione un mondo a parte), che verrà presentato in occasione della tavola rotonda, alla presenza del figlio di Bava, Lamberto.
Si ringraziano per la collaborazione, oltre agli autori del volume, Stefano Finesi e Massimiliano Rossi (La farfalla sul mirino), il Museo Nazionale del Cinema di Torino, la Cineteca Griffith di Genova, Rai Direzione Teche.
«Era un maestro dei movimenti di macchina, il modo di rendere emotiva una sequenza solo spostando la macchina da presa o abbassandola era geniale. Come Hitchcock, usava la camera e i movimenti, dolly e carrelli, in modo espressivo e non fini a se stessi. Il movimento di macchina buono è solo quando porta a un risultato. In questo era magistrale».
Dario Argento
sabato 26
ore 17.00
La maschera del demonio (1960)
Regia: Mario Bava; soggetto: da Il Vij di Nikolaj Gogol’; sceneggiatura: Ennio de Concini, Mario Serandrei; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Barbara Steele, John Richardson, Andrea Checchi, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Enrico Olivieri; origine: Italia; produzione: Galatea, Jolly Film; durata: 88’
Due viaggiatori nelle steppe russe fanno resuscitare la strega Asa, che ha il volto identico alla sua discendente Katia. La strega vampirizzerà quasi tutti i componenti della famiglia, cercando d’impadronirsi del corpo del pronipote. «Gli spettatori e i critici italiani dell’epoca furono ingannati dal genere, ma La maschera del demonio è un film di ambizioni alte, quanto poteva esserlo Il bacio della pantera di Tourneur. Bava rende significativamente omaggio a Nosferatu di Murnau nella sequenza della carrozza di Iavutich che attraversa il bosco. Ma girando in ralenti (al contrario di Murnau, che accelerava), Bava sottolinea anche la propria originalità nel momento in cui cita un’iconografia preesistente. Più che I vampiri, dove l’elemento orrorifico era ancora timido e necessitava per di più di una spiegazione naturalista, La maschera del demonio è il film che fa nascere l’horror italiano: un genere che durò fino al 1966 circa, mai destinato a grandi incassi, ma seguito (con maggiore entusiasmo) anche fuori dal nostro paese» (Pezzotta). «Io regista non lo volevo fare, perché secondo me il regista deve essere veramente un genio e poi stavo bene a fare il direttore della fotografia, guadagnavo un sacco di soldi. Anni prima avevo letto Il Vij di Gogol. Lo lessi ai miei figli a Silvi Marina, erano ancora piccoli e non c’era ancora la televisione. I due, poveretti, dalla paura dormirono in mezzo al letto. Siccome in quel periodo era uscito Dracula, pensai di fare un film del terrore. Venne fuori La maschera del demonio, de Il Vij era rimasto solo il nome del protagonista, era tutta un’altra storia. Cinque miliardi incassi in America e ho fatto il regista» (Bava).
ore 18.45
La frusta e il corpo (1963)
Regia: John M. Old [Mario Bava]; sceneggiatura: Julian Berry [Ernesto Gastaldi], Robert Hugo [Ugo Guerra], Martin Hardy [Luciano Martino]; fotografia: David Hamilton [Ubaldo Terzano]; montaggio: Rob King [Roberto Cinquini]; interpreti: Daliah Levi, Christopher Lee, Tony Kendall [Luciano Stella], Isli Oberon [Ida Galli], Harriet White, Alan Collins [Luciano Pigozzi]; origine: Italia/Francia; produzione: Vox Film, Leone Film, Francinor-Paris International Productions; durata: 86’
Il gotico secondo Bava. Kurt, il figlio del conte Menliff, viene ucciso dopo il suo ritorno nel maniero di famiglia. Il suo spirito ossessiona la cognata, un tempo sua amante, creando un clima di terrore. Il film ebbe problemi con la censura: «Me lo hanno sequestrato perché si vedeva Christopher Lee che frusta Daliah Levi tutta compiaciuta e gaudente» (Bava). Sergio Martino, ispettore di produzione del film, ricorda che Bava «era un regista che aveva un grandissimo rispetto per il denaro e la pellicola, girava addirittura con il cronometro. Per esempio gli ho visto fare una cosa che io non ho mai fatto: strappare le pagine del copione dicendo: “Siamo abbastanza lunghi, questa scena non la giriamo». Ed è una cosa molto sana, tagliare prima invece di tagliare dopo». La protagonista, Daliah Levi, era reduce dall’indimenticabile prova ne Il demonio di Brunello Rondi.
ore 20.30
Mario Bava: Operazione paura (2004)
Regia: Gabriele Acerbo, Roberto Pisoni; fotografia: Luca Brovelli; montaggio: Carlotta Giorgi, Davide Sanson; origine: Italia; produzione: Sky Cinema; durata: 53’
Il documentario, con la guida di Joe Dante e le testimonianze di molti registi hollywoodiani, ripercorre la carriera di Mario Bava, il regista italiano che con il suo talento onirico e visivo, la sua enorme capacità di inventare soluzioni tecniche di incredibile efficacia con budget irrisori, ha creato horror, thriller e film fantastici dallo stile ineguagliabile. Testimonianze di Dario Argento, Fabrizio Bava, Lamberto Bava, Mario Bava, Alberto Bevilacqua, Tim Burton, Roman Coppola, Roger Corman, Callisto Cosulich, Luigi Cozzi, Joe Dante, Dino De Laurentiis, Stefano Della Casa, Massimo De Rita, John Landis, John Phillip Law, Alfredo Leone, Tim Lucas, Fulvio Lucisano, Mario Monicelli, Ennio Morricone, Daria Nicolodi, Carlo Rambaldi, Elke Sommer, Barbara Steele, Sergio Stivaletti, Quentin Tarantino.
a seguire
I tre volti della paura (1963)
Regia: Mario Bava; soggetto: da racconti di Anton Cechov, Aleksej Tolstoj, Guy De Maupassant; sceneggiatura: Marcello Fondato, con la collaborazione di Alberto Bevilacqua, M. Bava, [non accreditato Ugo Guerra]; fotografia: Ubaldo Terzano; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Michèle Mercier, Lydia Alfonsi, Boris Karloff, Suzy Anderson, Mark Damon, Jacqueline Pierreux; origine: Italia/Francia; produzione: Emmepi Cinematografica, Galatea, Société Cinématographique Lyre; durata: 99’
Tre racconti del terrore, introdotti da Boris Karloff. «Film singolarissimo, quasi unico nella sua struttura di trilogia di novella del brivido; tre variazioni e tre stili baviani. Nella prima novella, “da camera” troviamo un Bava attento al dettaglio psicologico, all’evoluzione ambigua dei due personaggi, senza trucchi o fantasie visuali. Nella seconda, un piccolo capolavoro in se stessa, il tema del vampirismo affiora evocato con richiami letterari e si impernia tutto sulla poderosa figura, miticamente gigantesca, di Boris Karloff. Nella terza, tutto è atmosfera e gioco di ombre e luci, rumori e mosconi, un Bava libero di materializzare le sue vicende paurose. Che dire dell’introduzione ai film detta da Karloff su uno sfondo magico-spaziale? Che è surclassato in bellezza, in poesia e in genialità pura dal finale autoironico» (Codelli). «Se il lungometraggio che mi ha spaventato di più è un classico di Robert Wise, Gli invasati (The Haunting, 1963), il cortometraggio che più mi ha inquietato è firmato da Mario Bava. I tre volti della paura contiene un episodio basato su un racconto di Cechov: La goccia d’acqua. È il frammento di cinema più pauroso che abbia mai visto in vita mia […] Mario Bava è il mio preferito, perché ti penetra sotto la pelle, nell’inconscio, creando immagini brillanti che ti terrorizzano. È un maestro, e io non ho mai visto film come i suoi. Li scoprii nei drive-in quando frequentavo il college negli anni settanta e, anche se poi non li ho più rivisti per circa vent’anni, ricordo che mi colpirono molto. E mi spaventarono per quanto erano belli» (Sam Raimi).
Copia proveniente dalla Cineteca Griffith di Genova – Ingresso gratuito
domenica 27
Jean Cayrol. Dalla notte e dalla nebbia
Convegno internazionale in occasione della Giornata della Memoria
Poeta, romanziere, cineasta, editore, Jean Cayrol (1911-2005), prossimo al surrealismo, legato ai temi della Resistenza e dell’impegno, assertore di una nuova forma di arte ispirata alla sua esperienza di deportato (l’«art lazaréen»), riconosciuto come uno dei precursori del Nouveau roman: i suoi principi troveranno espressione nelle sue fictions e nella sua scrittura poetica e cinematografica; attraverso di essi, si annunciano e si leggono le questioni cruciali dell’universo concentrazionario.
Il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell'Università degli Studi di Roma Tre, in collaborazione con il Dipartimento di Letterature comparate ed il Centro Studi italo-francesi, con il sostegno del Rettorato della stessa Università e dell’Ambasciata di Francia a Roma – BCLA, organizza il Convegno internazionale Jean Cayrol. Dalla notte e dalla Nebbia, in occasione della giornata della Memoria, che avrà luogo in varie sedi dell’Università degli Studi di Roma Tre il 25 e 26 gennaio 2008.
A conclusione del convegno questa rassegna, curata da Eleonora Costanza (Università Roma Tre) e Stephane Solier (Ambassade de France – BCLA) in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale e con il sostegno dell’Ambasciata di Francia in Italia, vuole essere un ulteriore omaggio all’attività intellettuale di Jean Cayrol che in Italia continua a essere, a torto, una figura ignorata dall’editoria e sconosciuta alla maggior parte del pubblico.
Proiezioni a ingresso gratuito
ore 16.30
Incontro con Giorgio de Vincenti (Università degli Studi Roma Tre) e Gianfranco Rubino (Università degli Studi Roma “La Sapienza”)
ore 17.30
On vous parle (1960)
Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand; interprete: Daniel Sorano; origine: Francia; durata: 16’; v.o.; sott. it.
Estratto da un testo omonimo, questo cortometraggio sembra un lento monologo di un personaggio miserevole a proposito dell’esperienza concentrazionaria. Questo personaggio non identificato ricorda un allontanamento misterioso dalla propria casa, durante la guerra, l’arrivo in un campo di concentramento, la sensazione di essere spiato, la paura di un colpo di rivoltella alle spalle, «il moribondo che reclama la sua minestra», il letto come un pagliericcio, il proprio profilo magro di piccolo rapace. Il ritorno, quando a Parigi era il tempo delle ciliegie e gli impiccati sugli alberi non avevano più sangue. La fuga dalla festa, «j’aimais me faire oublier». Il lavoro in una fabbrica. L’apparizione della donna amata che non lo riconosce più («on ne peut s’aimer quando on est terrifié l’un par l’autre») e rinuncia a raggiungerlo. La guerra che non vuole finire. E la domanda finale: «pourquoi m’a-t-on tué si je ne suis pas encore mort?».
a seguire
La frontière (1961)
Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand; interpreti: Laurent Terzieff; origine: Francia; durata: 18’; v.o.; sott. it.
In un ampio monologo, qualcuno parla di se stesso: bambino triste e vagabondo, la guerra improvvisa, la guerra che se ne va ma «je suis toujours en guerre», mentre non esistono più età. La città viene ricostruita, «per vivere è sufficiente perdere la memoria». Il personaggio è un morto diverso dagli altri morti, che hanno dimenticato, è un «revenant» che non accetta «un falso passato, un falso paese». Ha vissuto l’esperienza della notte, «sur un bateau sans lumière et sans pavillon».
a seguire
Madame se meurt (1961)
Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand; interpreti: Suzanne Flon; origine: Francia; durata: 17’; v.o.; sott. it.
Un inverno sul mare, «on n’attends plus personne». Allora, per passare il tempo, «si riprendono le storie nel punto in cui altri le avevano dimenticate». Come la storia di Valence, una donna che vaga in una grande città piena di palazzi vuoti, mentre muoiono tutti i membri della sua famiglia. Non sogna mai, facendosi addormentare dalle dolci mani di uno sconosciuto, partendo per le spiagge su un vecchio cavallo da corsa, come in un incantesimo. Solitaria, aspetta la notte alla sua finestra, finché, nell’alba inattesa di un giorno, «osa vivere». Come la storia di Marcel che «parle de l’amour, amoureusement», rievocata dall’amante Valence che ha assistito, impotente, alla sua morte. Infine, di nuovo Valence, morta, divenuta selvaggia in simbiosi col giardino che la ospita e nel quale ricomincia a vivere una vita vegetale, invocando disperatamente un nome.
ore 19.00
Muriel ou le temps d’un rétour (Muriel, il tempo di un ritorno, 1962)
Regia: Alain Resnais; soggetto e sceneggiatura: Jean Cayrol; fotografia: Sacha Vierny; montaggio: Claudine Merlin, Kenout Peltier, Eric Pluet; interpreti: Delphine Seyrig, Jean-Pierre Kéirien, Nita Klein, Jean Baptiste Thiérrée; origine: France/Italia; produzione: Alpha Productions, Argos Films, Les Films de la Pléiade, Dear Film Produzione; durata: 115’; v.o.; sott. it.
La guerra d’Algeria è appena finita, ma non per chi l’ha vissuta. Siamo nel 1962 à Boulogne-sur-mer, dove Hélène Aughain si occupa del suo figlio adottivo Bernard. Veterano della guerra d’Algeria, ossessionato da un episodio di guerra: obbligato a partecipare alla tortura e ad assistere all’assassinio di Muriel, una ragazza algerina accusata di sabotaggio, non riesce a superare il suo passato (come il suo camerata Robert) né a dimenticare. Inoltre Hélène, vedova borghese ed annoiata che vive in un appartamento trasformato in bottega antiquaria, decide di ritrovare l’amore della sua adolescenza, Alphonse, anche lui di ritorno dalla guerra. Gli scrive. L’uomo arriva, ma in compagnia di una donna, e si installa a casa di Hélène. Questo incontro farà loro scoprire che non hanno più nulla in comune, nonostante gli sforzi per cercare di capirsi.
ore 21.00
Le coup de grâce (1966)
Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand; fotografia: Jean-Michel Boussaguet; montaggio: Odile Terzieff; interpreti: Danielle Darrieux, Michel Piccoli, Emmanuelle Riva, Olivier Hussenot, Bernard Tiphaine, Florence Guerfy, Jean-Jacques Lagarde; origine: France/Canada; produzione: Les Films de la Pléiade, Sofracima, Soquema inc.; durata: 99’; v.o.; sott. it.
Venticinque anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Bruno Capri, collaborazionista non scoperto della Gestapo, torna a Bordeaux e diventa l’amante di Sophie, la sorella di un resistente tra i molti da lui denunciati anni prima e che hanno trovato la morte. Sebbene abbia subito un’operazione di chirurgia estetica, la vedova della sua vittima crede di riconoscerlo… «On se méprendrait en ne considérant Le Coup de grâce que comme un récit d’action. En réalisant son premier film, Jean Cayrol [en collaboration avec] Claude Durand retrouve les thèmes de son œuvre de poète et de romancier: les images de la mémoire viennent recouvrir celles de la perception» (Pierre Mazars).
lunedì 28
chiuso
martedì 29
ore 18.00
La morte viene dallo spazio (1958)
Regia: Paolo Heusch; soggetto: Virgilio Sabel; sceneggiatura: Marcello Coscia, Alessandro Continenza; fotografia: Mario Bava; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Paul Hubschmid, Madaleine Fischer, Fiorella Mari, Ivo Garrani, Dario Michaelis, Gérard Landry; produzione: Royal Film, Lux Film; origine: Italia/Francia; durata: 82’
Primo film italiano di fantascienza ed esordio nella regia per Paolo Heusch, La morte viene dallospazio è considerato come uno dei migliori film di genere nostrani. Il razzo XZ viene lanciato verso la Luna ma per un’avaria perde la rotta ed entra in collisione con alcuni asteroidi che conseguentemente puntano inesorabili contro la Terra. La fotografia e gli effetti speciali sono di Mario Bava. «La trama è ideata molto ingegnosamente e la tensione che l’azione suscita va aumentando e non viene meno fino alla conclusione» (Albertazzi).
ore 19.30
Terrore nello spazio (1965)
Regia: Mario Bava; soggetto: da Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero; sceneggiatura: Ib Melchior, Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich, M. Bava, Anton Romàn, Rafael J. Salvia; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Gino Marinuzzi Jr.; montaggio: Antonio Gimeno, Romana Fortini; interpreti: Barry Sullivan, Norma Bengell, Angel Aranda, Evi Marandi, Fernando Villena, Stelio Candelli; origine: Italia/Spagna/Usa; produzione: Italian International Film, Castilla Cooperativa Cinematografica, American International Pictures; durata: 88’
La fantascienza all’italiana secondo Mario Bava, fra astronavi che scompaiono, un pianeta dai poteri magici, scheletri e alieni. «Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma veramente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e mezze in mezzo al mio set, poi, per coprire il pavimento, ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due uniche rocce, ho girato il film» (Bava). «Il film, a colori, ricorda per la scenografia alcune opere dell’espressionismo tedesco: suoni, luci, nebbie variopinte e sempre fluttuanti, melme in ebollizione, situazioni dense di mistero sono gli elementi che Bava ha mescolato per darci un discreto racconto di quel tipo di fantascienza che ignora i problemi della terra, ambientando personaggi e avvenimenti in mondi extragalattici e di pura fantasia» (Cavallaro).
ore 21.15
La ragazza che sapeva troppo (1963)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Ennio De Concini, Enzo [Sergio] Corbucci, Eliana De Sabata, con la collaborazione di Franco Prosperi, Mino Guerrini, M. Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Leticia Román, John Saxon, Valentina Cortese, Dante Di Paolo, Robert Buchanan, Gianni Di Benedetto; origine: Italia/Usa; produzione: Galatea, Coronet; durata: 88’
Il capostipite del thriller all’italiana, nato come giallo rosa e trasformato da Bava in un film di suspense, in cui una ragazza americana, giunta in Italia, si trova, suo malgrado, coinvolta in un delitto e inizia a indagare in una Roma allora definita, da un anonimo recensore, «del tutto inedita, assurda, ma divertente». In realtà Bava svela il volto segreto e minaccioso della città che incute terrore con le sue geniali costruzioni (il quartiere Coppedè), i suoi appartamenti vuoti e misteriosi (Bava riesce a creare tensioni anche sfruttando la luce e non solo il buio, come nella geniale sequenza dell’appartamento dalle pareti bianche, modello per molto cinema a venire). «Penso che fosse un’idea intelligente. Era come una parodia del giallo, un giallo nel giallo. Questa ragazza che ha una fervida immaginazione e fantasia e viene suggestionata dal libro che sta leggendo» (John Saxon). «Una delle mie sequenze preferite del cinema di Mario Bava è quella che apre il film. Quando è uscito il dvd in italiano ho visto la scena: è apparentemente la stessa ma, allo stesso tempo, è completamente diversa da quella americana. Il dialogo è differente. La sequenza, in un bianco e nero meraviglioso, è costruita dalla macchina da presa che si muove su un aereo passeggeri. Mentre la macchina da presa li sfiora, si sente quello che pensano i personaggi inquadrati, cose del tipo: «Questo cibo fa schifo», «Vorrei qualcosa da bere», oppure «Non sopporto più mia moglie», c’è un uomo che sta contando mentalmente dei soldi e una donna che sogna di andare a fare shopping. Il movimento chiude sulla protagonista e quello che sta pensando è: «Cosa farò adesso di te? Prenderò questo coltello, lo infilerò nel tuo dannato cuore e te lo strapperò via!». Poi ti rendi conto che sta leggendo un romanzo! È la scena d’apertura più bella che abbia mai visto. Quando ho comprato la versione italiana, ho scoperto che non c’è traccia di tutto ciò. È la stessa scena, ma non ci sono i pensieri della gente. Una delusione» (Tarantino).
Copia proveniente dalla Farfalla sul mirino – Ingresso gratuito
a seguire
L’ospite delle due (1975, 58’)
Programma televisivo della Rai andato in onda il 13 aprile 1975, condotto da Luciano Rispoli. Mario Bava, ospite in studio con Carlo Rambaldi, l’attrice Silvia Monelli e il critico (poi regista e collaboratore di Fellini) Gianfranco Angelucci, spiega ai telespettatori alcuni dei suoi straordinari trucchi.
Materiale gentilmente concesso da Rai Direzione Teche – Ingresso gratuito
mercoledì 30
ore 18.00
Gli invasori (1961)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Oreste Biancoli, Piero Pierotti, M. Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Cameron Mitchell, Giorgio Ardisson, Ellen Kessler, Alice Kessler, Jacques Delbò, François Cristophe; origine: Italia/Francia; produzione: Galatea, Critérion Film, Société Cinématographique Lyre; durata: 98’
L’epopea dei vichinghi all’assalto della Britannia. «Senza nasconderselo, il produttore tentò di rifare The Vikings, diretto da Richard Fleischer […]. Meno verboso e più barbaro rispetto al modello grazie alla descrizione grafica della violenza (l’enorme carro ornato di teste di morti dove sono legati due torturati; Rutford trafitto dalle frecce come San Sebastiano), il film di Bava anticipa l’universo parossistico del western italiano. I drakar che si stagliano sullo sfondo di un cielo arancione, il dragone scolpito sulla prua che emerge lentamente dalla nebbia, le frecce incendiarie che illuminano l’oscurità sono tutte testimonianze di quanta poesia si nasconda nella macchina da presa che Bava punta sulla tragedia umana…» (Martinet). «Le mie navi vichinghe erano carcasse della pasta Buitoni messe in fila, con quella specie di becco davanti soltanto, dopodiché ghiaccio secco per fare nebbia e i macchinisti che ogni tanto gettavano secchiate d’acqua, il dolly che andava su e giù e fumo in teatro, fumoni bianchi, fumoni neri. Ci prese un’intossicazione che rimasi sei mesi a letto e per poco non andavo a finire al manicomio per l’avvelenamento. Nello Santi mi mandò il cassiere con un regalo di cinque milioni, quelle cose che oggi col cavolo che succedono» (Bava).
Copia proveniente dalla Cineteca Griffith di Genova – Ingresso gratuito
ore 20.00
Quante volte… quella notte (1969)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Carl Ross, Mario Moroni; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Lallo Gori; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Daniela Giordano, Brett Halsey, Pascale Petit, Dick Randall, Brigitte Skay, Valeria Sabel; origine: Italia/Germania Occidentale; produzione: Delfino Film, Hape Film; durata: 95’
«Una ragazza […] racconta di essere stata vittima di un tentato stupro, ma il presunto violentatore sostiene che le cose sono andate diversamente. Nemmeno un testimone riesce a far luce sulla verità. Bava, molto più a suo agio nel genere horror, tenta qui una ben poco convincente incursione nel thriller dai toni pirandelliani, ambizioso ma assai sconnesso nella struttura narrativa. Iniziato nel 1969, il film è uscito quattro anni più tardi per problemi di censura» (Mereghetti). «Ho anche fatto un film spinto. Uno solo, niente male. Non lo nego. Si tratta di Quante volte… quella notte. L’ho fatto in un’epoca in cui in Italia, se rifiutavi di girare un film erotico, ti prendevano per omosessuale. Era basato sullo stresso principio di Rashômon: la notte di due coppie, raccontata da ciascuno dei partner. Una volta tanto le scene di sesso erano giustificate. Ma la censura l’ha bocciato. Il mio amico Riccardo Freda faceva parte della Commissione. Per salvare il film ho proposto in un secondo tempo di inserire una messa nera. Sono ancora in attesa di risposta» (Bava).
ore 21.45
Diabolik (1968)
Regia: Maria Bava; soggetto: Angela e Luciana Giussani, Dino Maiuri, Adriano Baracco; sceneggiatura: D. Maiuri, Adriano Baracco; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Romana Fortini; interpreti: John Philip Law, Marisa Mell, Michel Piccoli, Adolfo Celi, Claudio Gora, Terry Thomas; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Marianne Productions; durata: 101’
Trasposizione cinematografica del celebre fumetto delle sorelle Giussani. L’ispettore Ginko dà la caccia a Diabolik che, con l’aiuto di Eva Kant, ha rubato dieci milioni di dollari. Bava non ne aveva un grande ricordo (anche perché i tempi di lavorazioni, particolarmente lunghi, erano inusuali per lui): «Per Diabolik avevo a disposizione pochissimi mezzi, l’ho finito con circa duecento milioni di spesa, un’inezia. Si figuri che ho dovuto arrangiarmi a inventare tutto con i trucchi perché la produzione non mi forniva niente, ma proprio niente. Ha visto la capanna di Diabolik in campagna, il suo rifugio, il laboratorio, l’autorimessa…? Le giuro, erano tutti modellini, fotografie che io ritagliavo al momento, improvvisando per rimediare allo squallore della scena e incollavo su un vetro davanti alla macchina da presa». Invece Dino De Laurentiis che produsse il film serba un grande ricordo del regista: «Diabolik era uno di quei film che senza gli effetti speciali non si sarebbe potuto realizzare. All’epoca non c’era la tecnologia che c’è oggi, per esempio la computer animation, che ci consente di fare quasi tutto. All’epoca era necessario usare la fantasia e scelsi Mario Bava perché aveva quest’eccezionale capacità nel realizzare gli effetti speciali. Era un grande professionista e riusciva a risolvere problemi complessi in chiave tecnica con un’agilità eccezionale. Oggi Mario Bava dovrebbe essere un mito, un uomo che tutti dovrebbero ricordare per le sue qualità umane, ma soprattutto per la sua voglia e la sua passione di fare del cinema». Piena esplosione pop, con l’icona Marisa Mell, scelta di ripiego per la parte di Eva Kant, assegnata inizialmente a Catherine Deneuve, la quale però non voleva lasciar vedere neppure i polpacci e fu rispedita al mittente. Poco dopo esplose con Bella di giorno «dove se non mostravano al microscopio la sua epidermide, poco ci mancava! Valli a capire gli attori!» (Bava).
giovedì 31
ore 18.00
La Venere d’Ille (1978)
Regia: Mario e Lamberto Bava; soggetto: dal racconto omonimo di Prosper Mérimée; sceneggiatura: L. Bava, Cesare Garboli; fotografia: Nino Celeste; musica: Ubaldo Continiello; montaggio: Fernando Papa; origine: Italia; interpreti: Marc Porel, Daria Nicolodi, Fausto Di Bella, Adriana Innocenti, Mario Maranzana, Diana De Curtis; origine: Italia; produzione: Pont Royal Film Tv, Rai 2; durata: 60’
Film per la tv trasmesso il 27 maggio 1981 per la serie I giochi del delitto – Storie fantastiche dell’Ottocento. La storia, ambientata nella provincia francese, ruota attorno a una statua di bronzo che raffigura Venere. «Bava è riuscito a cogliere anche molte delle insenature del racconto e a scrivervi dentro una splendida rappresentazione di una cultura contadina e mediterranea nella quale di vedono convivere e intrecciarsi elementi solari e lunari (il lato materiale, razionale, religioso col lato lunare, irrazionale, magico, del mondo e della cultura contadina mediterranea). Pagine colte che non restano inerti, fini a se stesse, ma che diventano in Bava occasione di racconto, pretesto narrativo. È, infatti, proprio cogliendo questo tratto culturale del mondo rappresentato che Bava riesce a giustificare diegeticamente e linguisticamente la splendida zoomata che collegando la luna alla terra dà il via a quella magistrale ultima parte del racconto, tutta giocata sul perfetto uso dell’esitazione fantastica, in cui la terra e il cielo, il razionale e l’irrazionale, si congiungono per determinare lo choc fantastico grazie al quale il racconto raggiunge il suo climax e il suo senso» (Gualtiero Pironi). «Quest’opera finale di Bava è tra i capolavori di un cinema che non si risolve mai in equilibri conclusi. I costumi ottocenteschi si aggiungono ai corpi con la stessa libertà delle ricostruzioni rosselliniane, e sul rapporto verità-finzione dei corpi irrompono flagranze di dettagli carnalmente presenti oltre la minacciosa fermezza statuaria. Se l’horror di Mastrocinque o Ferroni conferma fascinosamente la natura del manichino, Bava può sì spingere la presenza romantica fin dentro i mondi classici (il greco, l’orientale, il nordico, persino quello postsettecentesco di Mérimée o quello dell’orizzonte russo) ma senza rinunciare a una trasparenza che riesce consunstanziale quanto quello rosselliniana alla natura televisiva» (Germani).
Copia proveniente dal Museo Nazionale del Cinema di Torino
a seguire
Shock (1977)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Lamberto Bava, Francesco Barbieri, Paolo Brigenti, Dardano Sacchetti; fotografia: Alberto Spagnoli; musica: I Libra; montaggio: Roberto Sterbini; interpreti: Daria Nicolodi, John Steiner, David Colin jr., Ivan Rassimov, Nicola Salerno; origine: Italia; produzione: Laser Film; durata: 92’
Dora ritorna nella sua vecchia casa insieme al secondo marito e al figlio. Accadono fatti sconvolgenti legati al suicidio del primo marito. «A partire dall’inizio, la macchina da presa a livello del pavimento che esplora lentamente la desolazione di un ambiente […] il film porta il segno d’una mano maestra: ed il seguito, con il suo intrecciarsi di sesso incestuoso e subitanei squarciamenti di putrefazione e violenza, è messo in scena con un’ambiguità di attrazione e repulsione che nessuno, in futuro, sarà capace di ripetere» (Francesco Troiano). «Mi ricordo che c’era anche il problema del fantasma di Shock, sembrava non ci fosse il verso di farlo, non c’erano soldi. Shock è stato girato in cinque settimane con 120 milioni. Per finirlo abbiamo lavorato anche sedici al giorno. Per realizzare il fantasma, Mario costruì un cartoncino ritagliato con le sue mani d’oro, e lo illuminò con delle luci speciali, rendendolo sorprendentemente efficace. Aveva anche una collezione incredibile di “vetri acqua” degli anni trenta: quasi tutti gli incubi che ha Dora, il mio personaggio, erano ottenuti attraverso delle deformazioni provocate da questi vetri, sembrava che il mare ci trascolorasse dentro. Li ha usati anche per l’effetto della casa che arde alla fine di Inferno di Dario Argento. Nessuno sapeva far bruciare questo enorme grattacielo newyorkese, ci voleva un effetto speciale particolare e lui, ridisegnandolo su un vetro, riuscì a farlo» (Daria Nicolodi).
ore 20.45
Tavola rotonda moderata da Pierpaolo De Sanctis con Lamberto Bava, Renato Cestiè, Ernesto Gastaldi, Filippo Ottoni, Giona A. Nazzaro, Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni
Nel corso della tavola rotonda sarà presentato il volume Kill Bill Kill! Il cinema di Mario Bava, a cura di Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni,un mondo a parte, Roma, 2007
a seguire
Ecologia del delitto (1971)
Regia: Mario Bava; soggetto: Dardano Sacchetti, Franco Barberi; sceneggiatura: M. Bava, Joseph McLee [Giuseppe Zaccariello], Filippo Ottoni, [non accreditati Sergio Canevari, Francesco Vanorio]; fotografia: M. Bava; montaggio: Carlo Reali; interpreti: Claudine Auger, Luigi Pistilli, Claudio Volonté, Laura Betti, Leopoldo Trieste, Chris Avram; origine: Italia; produzione: Nuova Linea Cinematografica; durata: 85’
Prima versione dello straordinario film di Bava, che reca come titolo Ecologia del delitto, voluto dal produttore Giuseppe Zaccariello, per cavalcare l’onda ecologista, e con la battuta finale «così imparano a fare i cattivi» pronunciata dai bambini (autentiche stelle del cinema italiano anni Settanta) Nicoletta Elmi e Renato Cestiè, al suo esordio. Il titolo fu poi cambiato con Reazione a catena (Ecologia del delitto) e la battuta ammorbidita, cambiando il senso del finale del film. Tredici delitti in una baia, sulla quale grava l’ombra di una speculazione edilizia in atto, contro la quale la natura (o chi per lei) mette in atto le sue forme di autodifesa: un congegno narrativo perfetto in un film di forte impatto visivo in cui Bava gioca con gli elementi naturali e con la luce, suggestionando lo sguardo dello spettatore. Film imitatissimo in America (Venerdì 13 su tutti), circondato da un culto del tutto meritato, grazie, oltre che al plot, alla mano ispirata di Bava (specie nelle sequenze dei delitti, costruite con una cura, per una volta, argentiana), a un cast notevole in cui ogni attore regala un’interpretazione indimenticabile (splendido cameo di Isa Miranda nella parte dell’anziana contessa). «Non saprei raccontare la trama, ma è uno di quei film che meno li capisci e meglio è. Mi piace soprattutto un’inquadratura venuta fuori quasi per caso. Prima l’immagine è sfocata, si ha l’impressione di vedere qualcosa che sembra il sole. E invece no, si tratta di un occhio, un occhio immenso che occupa l’intero schermo» (Bava). Giuseppe Zaccariello, produttore improvvisato ma geniale, reduce dai fasti di A ciascuno il suo di Petri ed Escalation di Faenza, aveva pretese autoriali e firmò la sceneggiatura sotto pseudonimo.
Al termine del film sarà proiettato il finale di Reazione a catena (Ecologia del delitto).
Ingresso gratuito
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Sentieriselvaggi21st n.19: cartacea o digitale

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